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Il viaggiare dei brasiliani

Racconti e Articoli di Viaggio

Viaggiare è mangiare, in Brasile è così. Così ti avventuri giù dalle scale a caccia di pizza e birra scura, non devi andare lontano. Racconto di Alessandro Dell'Aira

Il viaggiare dei brasiliani

Viaggiare è mangiare, in Brasile è così. Tanto fa, se esplori l'Amazzonia illudendoti che sia ancora l'Amazzonia di Mário de Andrade, o se a San Paolo marci con tre milioni e mezzo di evangelici per Gesù, o se sfili in parata con i tre milioni e mezzo di gay lesbiche bisessuali e transgender nel giorno dell'orgoglio, o se esci dall'hotel perché il frigobar è stipato di noccioline sottovuoto e birra chiara. Così ti avventuri giù dalle scale a caccia di pizza e birra scura, non devi andare lontano.

Lasar Segall, Mario de Andrade sull’amaca (1929)
«É para viagem?». No grazie, sono appena arrivato da Milano. Poi ti viene un sospetto e capisci che para viagem è un modo di dire brasilico per: «consumi tutto qui o te lo incarto?». Un altro lampo di genio e intuisci che in Brasile il viaggiare e il mangiare sono un tutt'uno, che si vada per terra o per acqua, che si segua virtù e conoscenza oppure il Gran premio di Interlagos, tutti sudati sulle gradinate o in poltrona davanti alla tv con la birra ghiacciata e il sacchetto dei pop corn, la pipoca dolce o salata. E la pamonha dolce o salata, dove la metti? In Amazzonia, sulla Paulista, all'angolo tra Maria Antónia e dona Viridiana c'è sempre un ometto con il suo carretto-bar e il pentolone fumante della pamonha, il purè di mais e formaggio, zuccherato o salato, impacchettato nelle foglie di pannocchia.
Se non sai cos'è la pamonha e non ti fidi, continua a viaggiare sul marciapiedi, tornerai in hotel con una fetta di pizza al taglio avvolta nella stagnola. In Brasile si viaggia anche per andare a comprare la pizza e la pamonha, che non è la maconha, la maconha è la cannabis sativa e non va confusa con la pamonha come è successo a me quando nel mio secondo giorno di Brasile andai dal Rei da pamonha e gli chiesi maconha para viagem e lui mi rispose «você está viajando na maionese», tipico modo brasilico di mettere a posto uno che sta dicendo una montagna di sciocchezze.

In Brasile, oltre che nella maionese, puoi viaggiare a piedi dietro a un bloco de carnaval di paese, o in poltrona davanti alla tv con un refrigerante e un panino all'aglio mentre un pastore della Igreja de Cristo fondata nel 33 dopo Cristo ti ripete che Deus è fiel. Viaggiare è mangiare, un dettaglio sfuggito a Dante Alighieri. In tutto il suo viaggio dolce e salato Dante Alighieri non si ferma mai una volta a mangiare pamonha e pipoca, sempre assillato com'è da un assistant che lo assiste. Che gusto c'è nel viaggiare se non puoi mangiare mai, se a ogni passo c'è uno o una che ti spiegano chi sei, dove sei, chi è la gente del posto? A quei tempi il Brasile non era né inferno né paradiso, era una montagna al di là dello stretto di Gibilterra, in mezzo a un oceano nel quale era salutare non mettersi come invece volle fare per forza quel matto di Ulisse affamato di conoscenza. Dante Alighieri? No grazie, fatti non fummo a viaggiar come bruti. Francesco Petrarca? Sì grazie, lui sì che viaggiava ed amava, sbagliava continuamente strada, chiedeva scusa e si faceva perdonare.

Se qualcuno o qualcuna in Brasile ti cerca al telefono, due volte su tre sentirà la tua voce desolata che si scusa: «desculpe, estou de viagem». Stai viaggiando e non vuoi essere trovato. Potresti essere in orbita nello spazio, o nel pallone al piano di sotto, oppure in casa indaffarato negli affari tuoi. Ponto final, punto e basta, con la tua segreteria non si discute. Chi viaggia in Brasile è sempre un viajante, come amante è chi ama per amore, altrimenti sarebbe un amatore. In Brasile si viaggia come si viaggia in Africa quando si va al mercato, non per andarci e comprare ma per viaggiare, viaggiare e mangiare, viaggiare e conversare.

I signori viaggiatori, come li chiamano in Europa anche se non viaggiano da signori, i signori viaggiatori vanno dalla partenza all'arrivo con la cintura di sicurezza sullo sterno. Diversamente dai viaggiatori, i viaggianti vanno in giro senza cintura e senza collare e si fermano agli incroci quando vogliono, con uno qualsiasi dei tre colori, oppure passano col rosso perché finalmente hanno preso una decisione. In genere oggi chi guida rispetta i semafori e viaggia distratto, assicurato da una polizza che non lo mette al riparo dai rischi, gli assicura solo che li prevede, e poi si vede. In Brasile c'è ancora chi la pensa diversamente e infrange le regole con prudenza, confidando nel perdono degli uomini e degli dei, perché è obiettivamente giustificato dalla fretta, dal fatto che il vigile urbano non c'è, dal fatto che non sta passando quasi nessuno, e di notte dal rischio concreto di essere rapinato.

Nel quarto volume dei Mensagens do dia, messi in rete da Paulo Coelho per i viaggianti virtuali, c'è un messaggio che illustra alla perfezione questo concetto. «Dal paganesimo romano ai culti afrobrasiliani, dalla mitologia greca alle tradizioni indigene americane, l'incrocio è sempre stato ritenuto un luogo sacro. È lì che abitano alcuni dei e osservano il viaggiante che prende una decisione. È lì che si concentrano le due grandi energie, la via da scegliere e quella da abbandonare. Entrambe si fondono in un incrocio e per un breve periodo di tempo diventano una via sola. Il viandante può riposare, dormire un po', può anche interpellare gli dei dell'incrocio. Ma nessuno può restarci all'infinito. Una volta presa la decisione bisogna andare avanti, fidarsi del cuore e dimenticare la via che non si è scelta».

Gli umani di oggi hanno un senso sempre meno spiccato del viaggiare per errare, del viaggiare per divagare, del viaggiare per conto proprio con i sacri spuntini e le soste fuori programma. Sui marciapiedi di Bexiga, uno degli storici quartieri italiani di San Paolo, a due passi dalla chiesa di Maria Santissima Achiropita dei calabresi di Rossano, c'è sempre meno posto per il realejo, l'organetto portatile degli immigrati napoletani che ti fa ancora viaggiare all'indietro nel tempo con "La donna è mobile", "O lundú da cachaça", "O Sole mio", in un'Italia e in un Brasile che non ci sono più. L'uomo del realejo e il suo periquito della buona sorte devono arrangiarsi tra una salumeria di lontani discendenti di italiani che importano a San Paolo prodotti del nostro Sud e la saracinesca di un garage con la scritta «Divieto di parcheggio giorno e notte».

Per fortuna qua e là, agli incroci del centro, sui marciapiedi e spesso giù dai marciapiedi, appena fuori dalle strisce pedonali con il flusso continuo dei potenziali clienti, c'è ancora il carretto-bar del Rei da Pamonha, intorno al quale affollarsi, profughi dalle marce e dalle parate, con l'orgoglio di chi vive e viaggia col pollice alzato e puntato al cielo. Non confondiamo questo tipico gesto brasilico con quello del gringo che chiede un passaggio col pollice teso verso la strada da fare. Il pollice alzato in Brasile vuol dire: va bene, grazie, sono d'accordo, oggi marcia con me, viva la pamonha, ora passo io, você è um pipoca, ho fretta e ti taglio la strada, desculpe, so che mi perdonerai, fermati ancora all'incrocio con me, ma non davanti a me per favore, hai cannato la corsia lascia perdere e va' avanti che fra dieci chilometri c'è un altro svincolo, ieri era ieri e oggi è un altro giorno, viaggia tranquillo e mangia qualcosa, siamo tutti sotto il cielo che sta lassù. Il cielo è freddo, è degli dei, anche di quelli che una volta incontravi agli incroci. La vita invece è tua, ed è calda. Vivila dove vuoi, con chi vuoi, come la vuoi, dolce o salata come la pipoca, la pamonha e la pizza. Gringo, la vita in Brasile non è viaggio. È para viagem.

Torno in albergo. Mi dirigo all'ascensore con le mani occupate da una fetta di pizza argentata e una Brahma gelata tenuta in punta di dita. Il donnone della reception mi segue con lo sguardo. Si sta chiedendo come farò a chiamare l'ascensore. Nel passarle davanti le leggo negli occhi una mistura di compassione e calore umano. Chiamo l'ascensore col gomito e cerco di darmi un contegno. La porta si apre e si richiude da sé. Mi avvicino alla pulsantiera e schiaccio il numero sette. Col naso. (Pubblicato il 28 aprile 2008) - Letture Totali 81 volte - Torna indietro



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