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Da Beirut ad Amman

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Racconto di viaggio tra Beirut e Amman, dal Libano alla Sitia, di Stefano Politi - Inviato il 12 gennaio 2004 da Stefano Politi.

Da Beirut ad Amman

Sito o fonte Web: www.backpacker.it Beirut-Amman. Due viaggi: quello reale, geografico, compiuto in una giornata soltanto nella fretta di giungere in tempo nella capitale giordana per prendere il volo notturno che mi riporterà a Milano; quello sul filo dei ricordi, a ricostruire a ritroso le tre settimane trascorse tra Siria e Libano. La partenza è di buon mattino, dall’autostazione Charles Helou, periferia nord di Beirut.

Scendiamo dal taxi con i nostri zaini ed ecco materializzarsi uno sciame di procacciatori di passeggeri sguinzagliati dalla contraerea di autolinee e tassisti abusivi, tutti pronti a offrire i loro servigi per qualsiasi destinazione a prezzi oltraggiosi, ma sempre suscettibili di contrattazioni estenuanti.



"Damasco? Aleppo? Balbeek?" chiedono trepidanti e nervosi. Uno azzarda per scherzo persino il più odiato dei luoghi geografici da queste parti. "Israele?" e giù a ridere. Tiro fuori dallo zaino i biglietti dell’autobus per Damasco acquistati il giorno prima nella speranza che tutti si allontanino verso altre vittime da assalire. Niente da fare. Nessuno molla. Ci seguono imperterriti proponendo chissà cosa in arabo. La confusione degenera non appena raggiungiamo la pensilina delle partenze internazionali. Altri procacciatori di autolinee si avventano su di noi, ci urlano dritto nelle orecchie. Fingendo preoccupazione, il più furbo ci chiede di vedere i nostri biglietti e io, nell'ingenuità dell'europeo che pensa di avere trovato un aiuto, glieli porgo. Egli si catapulta alla vicina biglietteria dove inscena una breve ma intensa discussione che si risolve con lo scambio dei nostri biglietti per un pugno di banconote.

Il procacciatore si dilegua, la nostra incazzatura sale ed esplode in faccia al bigliettaio che ci rassicura con un sorriso idiota che va tuttobene. Intorno a noi, alle nostre urla, si raccoglie un capannello di gente. Compare un giovane soldato libanese. Avrà vent’anni o poco più, l’aria sorniona e il fucile kalashnikov infilato male a tracolla gli scivola in continuazione, ma nella sua mimetica azzurra a macchie regala un sorriso solare che per un attimo gela il caos intorno intorno a noi. "Do you speak english? Parlez vous francais?" dico, ma il soldato fa spallucce perché non va al di la della comprensione dell’arabo e si congeda con un gran saluto nel suo sorriso dirompente prima di allontarsi a piedi in compagnia di un amico.

La voce imperiosa dell’autista, quasi un present’arm, intima di salire a bordo di un pulmino pronto a partire per Damasco sempre che non sia vinto - come sembra molto probabile a sentire il motore che sembra soffrire di una grave raucedine meccanica - da un imminente cedimento strutturale. A bordo troviamo immigrati siriani con bagagli e scatoloni legati alla meglio con chilometri di spago, uomini d’affari libanesi in impeccabili camicie che non fanno una piega al caldo e alla polvere, una sciura del posto - la sola a masticare una lingua europea - due turisti spagnoli e un anziano con la kefiah che per tutto il tempo non farà altro che scatarrare fuori dal finestrino in sicronia col tossire del motore.

"Perché tutto quell’improvvisato ambaradan alla stazione dei bus di Beirut?", ci chiediamo mentre alle nostre spalle la città si allontana e rimpicciolisce sempre più a ogni nuovo ripido tornante affrontato dal pulmino con spasimi e sofferenze quasi umane. Tracciamo una ricostruzione ipotetica dell’accaduto. La società di autolinee che ci ha venduto il giorno prima i due biglietti per Damasco ha pagato i due posti rimasti sul pulmino sul quale ci troviamo trattenendo la differenza e rivendendo i due nostri posti sull’autobus di lusso che sarebbe partito successivamente.

Beirut, sdraiata sul mare come una bella signora finalmente ritornata in vita, si è però rivelata una vera sorpresa in questo lungo viaggio mediorientale. Ci sono città di cui si sa tutto o quasi prima ancora di vederle. Riviste turistiche patinate le illustrano nei dettagli, i film o i documentari le esaltano e i racconti di coloro che ci sono già stati fanno il resto. New York, Parigi, Londra... queste città finisci per conoscerle prima ancora di metterci piede, non così Beirut. Non mi attendevo nulla alla vigilia del viaggio, e ci siamo capitati più per estendere il soggiorno siriano in terra libanese, per l’ingenua attesa di visitare per la prima volta una città violata e insanguinata da una lunga guerra civile e di vederne ancora i segni sugli edifici o nei posti di blocco con tanto di carri armati e soldati, che per vera curiosità, voglia di conoscere.

Pensavo di Beirut tutti quegli stereotipi già vistie sentiti di una città araba: caotica e inquinata nel suo traffico e nelle sue polveri; sporca nelle distese di immondizia lasciata macerare al sole ovunque; colorata e profumata nei suk dove tra spezie, stoffe e mercanzie varie si compra e si fanno affari. Nulla di più sbagliato. Beirut, rispetto ad Aleppo, Damasco, alla vicina Tripoli, è un mondo a parte che racchiude e riflette il vero spirito della cultura libanese, stupefacente eclettismo di tradizioni, pensieri e idee. La convivenza tra tradizione e modernità è evidente.

Sulla spiaggia di Byblos ho visto giovani coppie con tanto di bikini e walkman prendere il sole e fumare il narghilè. A piedi ho percorso in lungo e largo le strade semideserte del distretto centrale in una domenica ventosa e lacerata dal cielo azzurro, tastando con gli occhi il primo miracolo libanese: la ricostruzione. Solidére, la società incaricata qualche anno fa dal governo libanese per ricostruire il centro cittadino, ha quasi portato a termine il restauro di centinaia di edifici ottomani o risalenti al mandato francese nel pieno rispetto dei più rigorosi criteri urbanistici e architettonici, tanto che nemmeno gli eleganti lampioni e le rinomate insegne stradali sono inserite a caso. Nella cornice della ricostruzione, fioriscono i caffè all’europea con i tavoli all’aperto, persino gli Starbucks Coffee importati da Seattle, i negozi e le boutique alla moda, i megastore che vendono esclusivamente musica Virgin o abbigliamento Nike e, anteprima assoluta nella regione mediorientale, spuntano numerose campane colorate per la raccolta differenziata dei rifiuti. continua "Da Beirut ad Amman" (Pubblicato il 12 gennaio 2004) - Letture Totali 91 volte - Torna indietro



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