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La mia prima bush walk

Racconti e Articoli di Viaggio

Racconto di un itinerario nelle Bluer Mountains, all'interno di Sydney, tratto "Australiando" di Claudio Montalti. - Inviato il 12 gennaio 2004 da Claudio Montalti.

La mia prima bush walk

Sito o fonte Web: www.claudiomontalti.net La mia prima bush-walk è iniziata su gradini tanto ripidi e impervi che parevano aggrappati alla parete verticale come artigli. Avevo da poco salutato un ragazzo gallese conosciuto la sera precedente nell'ostello, una costruzione dall’aspetto ruvido e semplice di una grande baita di montagna in cui mi ero subito trovato a galleggiare in un’atmosfera di cordialità e di simpatia. Le grandi sale comuni per mangiare, leggere e guardare la televisione erano interamente in legno e i fuochi scoppiettavano allegri in caminetti e stufe di ferro forgiate a mano. Il calore diffuso era stato un sollievo immediato alla temperatura esterna, precipitata rapidamente sotto la doppia cifra, ma anche maggiore era l’intimità di un ambiente rurale, familiare che quei semplici fuochi avevano saputo trasmettermi. Mi avevano scaldato il cuore, e mi ero sentito istintivamente a mio agio sui pavimenti scricchiolavano sotto i miei passi.

Nella cucina spaziosa, fervente d'attività, non avevo più avuto nessun problema a buttare lì qualche maccheronica parola con chiunque e, anche se poi mi riusciva difficile proseguire la conversazione, ho trovato davvero simpatica l'abitudine di mangiare raccontandoci quello che si era fatto durante il giorno. Io e il gallese avevamo parlato molto, mischiando slang e spagnolo, o meglio parlavo soltanto io: temo di averlo stordito di chiacchiere.

Era tutta colpa del posto. Quell'aria mi metteva addosso un’eccitazione incredibile. Mi ero mosso nel bosco del crinale come un micio non ancora cresciuto, ma a ogni biforcazione, ed erano state molte, Liam consultava la cartina e impiegava un secolo per decidere se andare a destra o a sinistra, così mi ero scusato e me n’ero andato con l'idea di avere fatto un piacere a entrambi. Erano luoghi ideali da vedere in solitario, e senza nessuno a distrarci si rischiava molto meno di mettere un piede in fallo e farci male.

Sono sceso lentamente nella vallata trecento metri più in basso soffermandomi nei punti più facili per chiedermi "Ma sono proprio io?" e per la meraviglia oltre che per un’assennata prudenza. Il calore riverberava dalla parete verticale come da un forno e i raggi violenti del sole m’investivano direttamente, rafforzando la soffocante oppressione. A metà dell’impegnativa discesa, mi sono affrettato senza pensare sotto una cascatella.

L'acqua, e l'irresistibile freschezza che essa rappresentava, era così invitante che l’altezza dalla quale cadeva mi sorprese nettamente, come uno sciocco. Lo striminzito fiotto d'acqua mi ha investito con una forza tale che sono scivolato sul leggero velo muschio che rivestiva la roccia liscia. Per fortuna, ho riguadagnato l'equilibrio ben prima del baratro e, i piedi prudentemente sul sicuro, fissando con rispetto il getto che mi aveva spostato di peso, mi sono bagnato al lungo sfruttando le mani a coppa. Ero di nuovo asciutto quando ho raggiunto l'ombra della fitta rainforest che ricopriva la vallata, nel punto esatto da cui - ai piedi del precipizio - partivano diverse bush-walk. Se era un reale fastidio non trovare nessuna indicazione - la cartina era rimasta in mano al gallese - non me ne sono accorto più di tanto perché senza esitare ho iniziato a seguire il torrente che nasceva ai piedi della cascata.

Era logico: seguendone la riva destra e controllando il tempo di marcia mi sono trasformato in un’edizione moderna e riveduta di Pollicino, e l'acqua stessa mi avrebbe indicato la via per tornare indietro qualora mi fossi accorto di essere fuori strada. Mezz'ora di continui su e giù, cambiamenti di direzione e di incroci con altri corsi d’acqua solo in apparenza diversi che si sono mischiarono all'originale mi hanno invece confuso e disorientato al punto che il piano è miseramente naufragato.

Mi sono tornarono in mente le parole di un uomo che il bush doveva averlo visto spesso. Il colore dei capi che indossava, il verde di chi vive gli spazi aperti, era stinto da infinite ore di sole violento. Era magro come uno spaventapasseri e radi ciuffi di capelli biondi spuntavano come stoppie incolte ai lati del cappello di cuoio, floscio per l’abitudine di portarlo anche nel sonno, era pesantemente segnato da numerose linee sottili dove infiniti strati di sudore si erano cristallizzati gli uni sugli altri.

Il naso, cronicamente ustionato dal sole, era sottile e prominente, e gli occhi erano tanto mobili e di un azzurro quasi lattiginoso che le pupille spiccavano come due capocchie di spillo. Sinceramente mi era subito sembrato un tipo travolto da una visione folle, ma lo ricordo ancora con simpatia perché, davanti a lui, la barriera sollevata dalla forzata incomunicabilità dei miei primi giorni australiani era magicamente crollata nello spazio di un attimo. Chiunque avrebbe capito il senso delle frasi che avevano accompagnato i suoi racconti di canguri e di coccodrilli.

Un po’ matto doveva esserlo, a sentire quello che diceva. Le lotte, gli agguati, le ferite subite in reali, o irreali?, avventure vissute negli angoli più selvaggi dell’Australia erano state continuamente sottolineate e risaltate da movimenti che lo costringevano ad alzarsi spesso dalla sedia, da squittii, grugniti, sibili e ululati emessi con la bocca. Ed era il momento più sbagliato per rammentare le angosce e le urla di paura dei giovani - smidollati, li aveva spregiativamente definiti - che aveva accompagnato e che avevano pensato di trovarsi davanti a un film o un documentario invece che alla selvaggia Australia.

"Basta un attimo per lasciarci la pelle" diceva di tanto in tanto, interrompendo le sue esibizioni con un gesto repentino del pollice sulla gola che non lasciava adito a dubbi, ma che era sempre stato sommerso da risate sia complici che irridenti. Era stato un matto divertente. Era. Quelle risate appartenevano ormai al passato.

D'improvviso, il bush era diventato spettrale, infido, nemico. Era fin troppo facile immaginare belve dagli sguardi freddi puntati su di me - anche se non ve ne erano - ma soprattutto esseri striscianti che silenziosamente mi avvicinavano al riparo di un arbusto, uno qualsiasi delle decine e decine che impedivano la vista oltre qualche passo. Istintivamente, mi sono affrettato senza nemmeno rendermi conto, così facendo, di aumentare i pericoli, se di pericoli si trattava, un comportamento irrazionale oltre che sciocco.

Oltretutto, il bush e tutto il suo concetto di wildness, selvaggia verginità, non si erano di certo materializzati all'improvviso. Erano anzi ben presenti nei miei occhi e nella mia mente già prima di scendere il paretaio reso rovente dal sole, ma solo che ora ne ero completamente avvolto, l'odore pungente della terra umida e del muschio era sufficiente ad aggredirmi. Il buon senso diceva di tornare subito indietro, ma la coscienza che se l'avessi davvero fatto senza una ragione plausibile nulla sarebbe più stato lo stesso, e che affrontare paure ingigantite da una sconfitta sarebbe stato ancora più difficile, mi aveva spinto a continuare.

Avevo tanto fantasticato sul concetto di bush, e desiderato quell'ambiente naturale e del tutto privo della presenza dell'uomo, che non potevo certo cedergli, non alla prima escursione, e non in quella maniera, ma il timore di perdermi, di cosa avrei potuto incontrare di selvaggio di non controllabile, di farmi male e non ricevere nessun soccorso in quella foresta disabitata erano un peso gravoso da portare, tanto che i passi si sono fatti subito, e fissavo sempre più timoroso i movimenti improvvisi tra i cespugli e sempre più preoccupato il quadrante dell’orologio. Mi sono detto sicuro che la mia non era né più, né meno di una grossa codardia dettata dalla poca fiducia in me e nella situazione e ho continuato ad avanzare nonostante il mio frugare tra le foglie fino a confondermi completamente la vista non rivelasse né un sentiero più battuto di altri, né un segnale fatto dall'uomo che indicasse la strada giusta.

Mi vedo sui giornali: "Turista italiano disperso nel bush australiano." Stranamente, più della paura di fare una simile fine, mi ha angosciato il grande dolore che avrei arrecato a mia madre, e ancora di più la prospettiva di una figuraccia in absentia, o peggio ancora di vergognare vita natural durante davanti a amici e, ahimè, nemici. continua "La mia prima bush walk"

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