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A briglia sciolta verso l’Afghanistan


Inserito il: 08/05/2009 da Fabio Migli
Email: redazione@viaggiatoriweb.it
Sito web: http://www.viaggiatoriweb.it
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L’ingresso in Afghanistan

La prima caotica e viva città che incontro è la splendida Mazar-e-Sharif e la sua spettacolare Moschea Blu splendente di lapislazzuli celesti, fulcro della città. Qui l’atmosfera che si respira sembra tranquilla e rilassata. Mi godo una passeggiata tra i bei viali curati, ombrosi e riccamente adornati da piante fiorite, che la circondano. Numerosi devoti sono in preghiera, mentre il muezzin intona la sua cantilena che riecheggia nell’aria dando un senso di magia a questo luogo sacro. Io sono fondamentalmente ateo, ma questi siti mi infondono una certa suggestione e benessere. E’ mia abitudine fare uno o due giri attorno ai posti religiosi che più mi colpiscono in cerca di ispirazione e coraggio. L’ho fatto a Bukhara così come a Samarcanda roteando attorno al prodigioso complesso del Registan. Ed anche questa moschea risalente al XV secolo, rivestita da maioliche verde-blu, è sicuramente una località suggestiva ed ammaliante. Giro e rigiro, osservando affascinato l’indecifrabile intreccio di segni splendenti che la adornano. Dei colombi bianchi le volteggiano intorno e si appollaiano sulle sue nicchie meravigliosamente affrescate, dando un senso di pace e speranza che in questa martoriata parte di mondo sarebbe più che auspicabile. Attorno alla moschea noto delle donne, alcune coperte da burqa colorati, e altre soltanto da veli bianchi o neri, le quali mi ricordano che sono realmente in Afghanistan. Tra le vie di Mazar mi confondo in mezzo alla gente sentendomi fra amici come in tante altre parti dell’Asia Centrale visitate in precedenza. Nel convulso bazar cittadino un bimbetto mi accompagna per le vie sconnesse, alla ricerca di un negozio di telefonia, preoccupandosi di segnalarmi gli ostacoli pericolosi per le rotelline della mia sedia (sono disabile dall’età di dieci anni), per poi congratularsi, facendomi segno con il pollice all’insù, per la mia “abilità” nel dribblare le irregolarità del terreno. Una volta individuato, stipulo velocemente un contratto telefonico con un gestore di telefonia mobile. A questo punto mi sento quasi afghano quando il simpatico commerciante baffuto mi consegna la nuova sim “Roshan”! Riprendo il viaggio verso le montagne a sud attraversando Pol-e-Kohmri. Qui passo la notte ospitato nel comando polizia. La serata trascorre piacevolmente in compagnia del colonnello Sheer, che si trasforma in insegnante di lingue aiutandomi ad apprendere alcune frasi in farsi, uno dei più usati idiomi dell’Afghanistan. Sheer parla il russo, questo fatto mi permette di comprendere il significato delle parole di questa, per me, nuova lingua che faticosamente cerco di acquisire. Trascrivo su un quaderno la pronuncia fonetica, e, a fianco, il significato. Sheer è un maestro esigente, infatti, vuole che io ripeta quanto ho scritto per essere certo dell’esattezza della mia dizione.

Dopo qualche correzione rimane soddisfatto. Vengo promosso “afghano” a tutti gli effetti, il mio nome d’ora in poi sarà Fasil! Peccato che riesca a pronunciare si e no una ventina di parole e circa dieci frasi, ma meglio che niente. Giusto quel tanto che basta a rompere il ghiaccio e venire accettato dalla gente con più facilità. Sarei potuto andare direttamente a Kabul ma, quando vedo il cartello che indica la strada per Bamiyan, non resisto alla tentazione di andare a visitare i Buddha, o più esattamente, quello che ne resta. Una stradaccia tutta pietre e polvere, effettuata a bassissima velocità salutando e dando la mano a quante più persone possibile. A volte do un passaggio alla gente che me lo richiede cercando di comunicare con quel poco di farsi che sono riuscito ad apprendere dall’improvvisato e simpatico “insegnante” del comando polizia di Pol-e-Khomri. Attraverso panorami di rara bellezza fatti di campi verdi, arcaici villaggi di argilla e gente semplice. E’ meraviglioso l’incontro con queste persone che mi fanno sempre sentire ben accetto. Ogni volta che scendo dalla Panda, montando la mia carrozzella, do spettacolo, e interi villaggi si assiepano intorno me per vedere quella che ai loro occhi deve sembrare una specie di prodigio. Una persona che non ha l’uso delle gambe e se ne va a zonzo per il mondo guidando una macchina, in Afghanistan, penso sia vista come una stregoneria. Tutti rimangono meravigliati, stupiti, nel provare a manovrare i comandi a mano dell’auto. I grandi vogliono studiare il meccanismo, quasi a volerne carpire i segreti, mentre i bambini si divertono un mondo a schiacciare sull’acceleratore e sentire il motore prendere giri, ridendo fragorosamente. Ma i più curiosi in assoluto sono le sfortunate persone disabili, senza un arto o entrambi, con le quali instauro un tacito rapporto di reciproca comprensione. Vogliono capire, conoscere come sia possibile guidare ancora dopo tragici “incidenti” di guerra, e magari riprendere a lavorare o semplicemente, vivere.

I Buddha di Bamiyan

Alla periferia del villaggio di Bamiyan, mi appare una lunghissima e alta falesia di roccia rossastra tormentata da grotte di varie dimensioni usate in tempi remoti come abitazioni dei monaci. Due di queste sono di altezze gigantesche. Sono le nicchie che contenevano i Buddha. Di loro non ve n’è quasi più traccia, dopo la distruzione operata dalla pazzia iconoclasta Taliban nel 2001, ma a guardar bene nella cavità si riesce ancora ad intuire la forma delle statue costruite tra il III e IV secolo d.C. E’ come un alone rimasto impresso nella roccia sottostante che da l’idea delle dimensioni ciclopiche degli antichi Buddha alti oltre 50 metri. Tra i due giganti, in una nicchia più piccola, è presente un bassorilievo in parte sfigurato di quello che sembra un altro Buddha alto circa 10 metri. Il suo volto semidistrutto sembra avere un’impressione sgomenta di fronte a tanta devastazione. Ora sono in atto dei lavori di restauro da parte di ditte occidentali (tra cui anche l’Italia), per tentare di riportare in vita i Buddha. Non vedo altre persone a gironzolare tra le rovine, a parte la Panda. La notte la trascorro in posizione panoramica con le grotte di fronte. Stupendo il panorama all’alba con una leggera nebbiolina che le avvolge rendendole irreali. Nei campi poco distanti, la popolazione è intenta nei lavori di sempre utilizzando arcaiche tecniche manuali. Trattori e altri mezzi motorizzati sono quasi del tutto sconosciuti. L’unico aiuto viene da muli e buoi usati per arare i campi o per molare il grano. Delle donne, a volte bellissime, vestite in colorati sari, a volto scoperto, trasportano sulla testa il frutto del lavoro avvolto in teli variopinti. Il paesaggio circostante, anche senza i Buddha, rimane di una bellezza sconcertante e senza età.     continua "A briglia sciolta verso l’Afghanistan"

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