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A briglia sciolta verso l’Afghanistan


Inserito il: 08/05/2009 da Fabio Migli
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I laghi Band e Amir

Ottanta chilometri a ovest di Bamiyan, su pista misto pietre e sabbia, incontro i laghi blu cobalto di Band-e- Amir. Uno spettacolo che mi lascia senza fiato. Mai in passato avevo visto nulla di simile. Qui riecheggiano nella mia testa le parole pronunciate con commozione da quell’anziano signore incontrato giorni addietro all’ambasciata afghana di Tashkent: “I laghi Band-e-Amir erano un dono della natura, ma forse ora non esisteranno più.” Come vorrei che ora fosse qui per rendersi conto che questo luogo meraviglioso c’è ancora. E’ realmente un dono della natura di un colore puro mai visto prima, incastonato come una pietra preziosa tra un vasto canyon di pietra dalle pareti altissime e verticali. Ricorda il Gran Canyon americano, soltanto più piccolo. Parcheggio la macchina quasi sull’orlo di una lingua di roccia. Sotto di me un baratro verticale che precipita nell’acqua limpidissima. Provo a gettar giù una pietra, e passano sei lunghi secondi prima di udirne il tonfo. Meglio non sporgersi troppo!

Il lago da un lato è chiuso da una barriera di calcare bianchissimo solcato da una cascata. Da lontano si ha l’idea di un ghiacciaio che si butta nell’acqua. Il contrasto di colori è indescrivibile. Stento a credere di essere nel “terribile” Afghanistan. Finalmente Kabul Tutto sembra andare per il meglio, quindi dopo otto giorni di viaggio in terra afghana mi sento ormai tranquillo e accasato. Il 18 settembre giungo a Kabul sul fare della sera. Come per magia, vagando per le sconnesse e polverose vie della città, mi trovo davanti al cancello dell’ospedale di Emergency, dove gli straordinari medici italiani mi ospitano per la notte nel loro appartamento di fronte. Qui, immediatamente, mi sento a casa. Raramente avevo provato un sensazione così forte di trovarmi a mio agio in un ambiente amichevole e positivo. Mi da l’impressione di essere tra amici di vecchia data dotati di una carica di umanità ed immediatezza senza eguali. Il mattino successivo visito l’interno dell’ospedale per vittime di guerra. Rimango colpito dal bel giardino curato fin nei minimi dettagli, dotato anche di altalene per i piccoli pazienti. Insieme ai medici italiani visito i reparti. Anche qui la pulizia e l’ordine sono impeccabili. Trattengo il pianto a stento quando osservo i tanti feriti di tutte le età, vittime di mine e della pazzia della guerra. “Loro perlomeno sono stati fortunati a riuscire ad arrivare in tempo in questo luogo dove riceveranno sicuramente delle amorevoli cure. Ma chissà ora quante altre persone sventurate stanno soffrendo nel resto del Paese.” Penso tra me addolorato. In città, all’ambasciata del Pakistan, dovevo ottenere un documento doganale per oltrepassare il confine afghano/ pakistano, ma qui cominciano i problemi: il console mi informa che dal 2006 è stato interdetto il transito terrestre ai mezzi leggeri tra i due Paesi per ordini governativi. Una doccia fredda. Provo a insistere ma non c’è verso: in Pakistan con la macchina non si può andare. A questo punto penso di tornare in Italia via Herat e Iran, e prontamente riprendo a guidare tra i vari blocchi di cemento sovrastati da militari armati che delimitano la strada attorno alle “zone sensibili”, fino all’ambasciata iraniana. Qui altre difficoltà: “Per avviare le procedure di richiesta del visto ci deve prima fornire una lettera d’introduzione da parte della sua ambasciata”, mi comunica un funzionario. “Altro giro, altro regalo” penso, intanto che mi reimmergo nel caotico traffico di Kabul alla volta della non lontana ambasciata Italiana.

La “via di fuga”

Quando varco il massiccio e alto cancello nero che occulta alla vista la sfarzosa sede diplomatica di casa nostra, il mio viaggio itinerante prende una piega che mai avrei immaginato. I sorpresi carabinieri di guardia chiamano un ancor più incredulo Consigliere dell’Ambasciatore (in vacanza in Italia, dunque il Consigliere faceva le sue veci). Un ragazzo simpatico e affabile ma irremovibile di fronte al mio voler proseguire il percorso verso l’Iran. “La strada per Herat è interrotta per operazioni militari in corso e l’unica via sarebbe a sud attraverso Kandahar, zona pericolosissima, non possiamo permetterti di proseguire oltre, in passato abbiamo già avuto fin troppi problemi con sequestri vari. Forse ti possiamo organizzare una via di fuga un po’ “avventurosa”, ma penso che si possa fare. Ora ne parliamo con il Generale, afferma il Consigliere. La “via di fuga”, da loro escogitata, è piuttosto bizzarra: vorrebbero farmi rimpatriare con un grande aereo militare C130, Panda compresa! “Abbiamo avvertito l’unità di crisi, e il Generale si sta già dando da fare, è una cosa fattibile, c’è solo da attendere un aereo non troppo carico che vada in Italia. Credimi non hai altra scelta. Intanto che aspetti sarai nostro ospite, la stanza presidenziale è a tua disposizione.” Il Consigliere è di una squisitezza unica, sempre pieno di attenzioni nei miei riguardi, e in breve divengo la mascotte dell’ambasciata. Mi sento imprigionato, ma non mi lasciano altre chances. La Panda volante

Sette lunghi giorni di attesa poi finalmente, il 26 settembre, m’imbarco con tutta la macchina sul poderoso quadrimotore dall’ipercontrollato e armato aeroporto militare di Kabul. Prima della partenza due elicotteri Apache si levano a mezz’aria, perfettamente paralleli, per controllare l’area della pista. L’interno del C130, spartano ed essenziale, ricorda la stiva di una nave o anche un dirigibile. I quattro potenti motori a elica fanno un rumore infernale, fastidioso anche usando i tappi nelle orecchie. Quando si stacca dal suolo, ondeggia paurosamente tra le onde del cielo, ma una volta in quota si stabilizza e diviene quello che è definito “ferro da stiro”. Destinazione finale Ciampino, dopo uno scalo negli Emirati Arabi. Con immenso stupore mi trovo in breve a guidare tra le vie di Ciampino, frastornato ed assorto nei pensieri. “Soltanto due giorni fa ero tra il caos di Kabul, ed ora eccomi di nuovo in Italia!”, rifletto incredulo. Mi fermo tra le vie della cittadina, che conosco benissimo dal momento che collaboro da tanti anni con una ditta di radiocomunicazioni appena fuori dal centro, e faccio un incontro inaspettato. Ascolto una voce familiare che mi chiama per nome: “Fabio, cosa ci fai qui? Pensavo fossi ancora in Afghanistan!” Si tratta del mio principale, esterrefatto al vedermi già di ritorno. Difficile raccontargli come sono andate le cose. Prosegue: ”Beh, meglio così, forse sono state le nostre raccomandazioni a farti tornare in anticipo. Domani ti aspettiamo, c’è un mucchio di lavoro arretrato per te!” Il 28 settembre termina, insperatamente, la mia avventura in terra afghana. Quest’ultimo pazzo viaggio mi è rimasto nell’anima più di ogni altro fatto in precedenza. Anche se è stato tra i più brevi degli ultimi tempi, 18.000 chilometri in quasi tre mesi, si è rivelato molto intenso, emotivo e partecipato. I miei viaggi sono comunque sempre sentiti e vissuti, amplificati dal fatto che parto da solo, abitando nell’ambiente circostante utilizzando la comoda Panda-minicamper e in compagnia della gente che a mano a mano incontro sulla via, condividendo momenti indimenticabili. Queste brevi righe sono a ricordo di quei meravigliosi e incancellabili giorni trascorsi tra le generose persone afghane. Ritorno a Roma, e rivedo la vecchia Panda 4x4 impolverata e triste. E’ strano, mi sembra quasi depressa per averla abbandonata a casa. Non resisto alla tentazione di rimetterla in moto, e dopo pochi giri di avviamento, eccola di nuovo rombante, come se niente fosse. Quando monto all’interno di questa vissuta vettura, succede una specie di magia: mi tornano davanti agli occhi mille immagini di posti esotici e di persone sorridenti che hanno condiviso con me esperienze ed emozioni indescrivibili in angoli remoti del globo. Ormai tra noi c’è un rapporto di sintonia e quasi di tacita simbiosi.

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