Hoggar


Inserito il: 10/07/2004 da Annuska  Grisendi
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Quando arriviamo in quota, usciamo su un immenso plateau ondulato, di un diffuso grigio-piombo, dal quale traspare il colore rossiccio della terra. Sinuose tracce dorate lo solcano, segno del passaggio dei fuoristrada. Pare che un dio maligno abbia voluto cancellare lo splendore ocraceo di questa terra con una fitta pioggia di grigi sassi. In realtà è la “vernice del deserto”, la patina scura dovuta all’ossidazione: da vicino si intravede l’anima dorata della roccia. Il cielo è solcato da lunghe striature di nubi, che danno al paesaggio un’insolita profondità.

All’orizzonte emergono vette isolate di forma diversa. La più massiccia ed estesa, a forma di piramide tronca, si chiama “Akarakar” e durante una sosta Ahmed e Mohammed tentano di spiegarmi che “akarakar” è “qualcosa di alto che si muove, come la testa.” Chissà perché l’hanno chiamata così! Forse in memoria di un re del luogo, Akar appunto, figura non so se mitica o storica.

Eppure qui si respira un’aria familiare: queste moli svettanti ricordano le Dolomiti e ci si sente veramente in alta montagna, si respira l’aria fine delle grandi altitudini, ci si sente entro uno spazio dilatato. Non è la muta, immobile desolazione del Ténéré, e nemmeno la silenziosa immensità dell’erg.

Prima di mezzogiorno raggiungiamo la guelfa di “Afilal” e, mentre Azoum prepara il pranzo, mi incammino lungo il canyon popolato di oleandri. Subito un fruscio mi sorprende, che pare venire da un altro mondo: è il brusio discreto dell’acqua che mormora fra i sassi. L’oued ora si allarga in bacini apparentemente immobili, ora scorre fra pareti di roccia, le cui innumerevoli sfaccettature fanno pensare a quadri cubisti. Impossibile difendersi dalla luce riverberata da mille superfici. Le rocce a terra, levigate dall’acqua, risplendono come antichi specchi d’argento brunito. Cammino proteggendomi col shesh, facendomi strada fra il verde folto, saltando sui sassi per evitare i rigagnoli, passando da una sponda all’altra, dove il percorso mi sembra più agevole. Sotto i miei piedi rocce striate di verde o color petrolio, massi di granito chiaro , grossi sassi neri, porosi e riarsi come la pomice, forse di origine lavica. Il canyon sembra non avere fine. Ad un tratto mi accorgo di aver proceduto troppo a lungo e di essere in ritardo. Ritorno sui miei passi il più in fretta possibile e infatti, quando giungo al campo, mi stanno aspettando e Azoum mi viene incontro visibilmente preoccupato:”Mais où es tu allée? Je t’ai cherché partout!” Francamente la sua preoccupazione mi pare eccessiva: non ci si perde seguendo il corso di un oued fra le rocce! Mangio in fretta e, per farmi perdonare, aiuto a lavare i piatti.

Riprendiamo il cammino; un’ora di strada ancora ci separa dall’Assekrem ed è il tratto più impervio e dissestato. Ad una svolta mi si para innanzi la mole strana, fantastica, imponente di una massiccia piramide tronca formata da grossi cordoni verticali di roccia; dalla sua sommità emerge e si innalza un grosso “piton” appuntito, striato da più esili cordonature. Dal monte si slancia verso l’alto una sottile colonna di nube, che poi si amplia come un fungo dall’esile gambo. “Tezuyag”, dice Bashir indicandomelo col dito. “Qu’est-que c’est, Bashir?” “Grand oiseau!” e con i gomiti aperti mima il volo di un grande uccello. “Quel oiseau?” Non ricorda il nome in francese e si concentra alla ricerca di un modo per farmi capire; alla fine lo trova: ” crah!….crah!……” “Il corvo! …Le corbeau!”, e lui annuisce e sorride contento.

Non finisce mai di affascinarmi la capacità dei Touareg di dare un’anima alle cose. E’ il residuo di un’antica religione animistica ed è insieme un approccio conoscitivo simile a quello dei bambini, molto poco scientifico, ma quanta ricchezza di immagini suscita nella fantasia e che rapporto di comunione stabilisce fra l’uomo e la realtà! Dare un nome alle cose significa farle proprie, mettersi in contatto col loro “nume”, la loro essenza, e in ultima analisi sentirsi meno soli in un mondo popolato di presenze familiari. Forse questo è fondamentale per gli uomini del deserto, ma anche a chi conosce l’approccio scientifico farebbe bene guardare alle cose con la “simpatia” di chi le sente “sorelle”, alla maniera di S.Francesco. L’Africa ha molto da insegnare a noi europei; se fossimo capaci di ascoltarne la voce, prima che essa vada perduta, la nostra cultura se ne arricchirebbe e diverrebbe più umana.

La strada gira proprio alla base del monte e ben presto ce ne rivela il versante occidentale, costituito da enormi lastre di roccia verticali fittamente addossate le une alle altre. Vista da ovest la massa compatta della montagna appare articolata in tre cime: una più bassa e acuminata sulla destra, una centrale più massiccia con la punta stondata, e un grosso piton appuntito sulla sinistra. Mentre ci allontaniamo, non riesco ad evitare di tenerlo d’occhio ad ogni svolta della strada e mi accorgo che, con la distanza che aumenta, di nuovo la roccia prende l’aspetto di un fascio di canne d’organo.

Gli ultimi km. sono molto difficoltosi e lenti; sul volto degli autisti si legge la tensione: la polvere che ricopre le rocce, di cui è disseminata la pista, la rende scivolosa e i pneumatici rischiano di slittare.

Alla fine raggiungiamo il rifugio dell’Assekrem: tre costruzioni di sasso su una sella, dalla quale si domina anche il versante opposto a quello da cui siamo saliti. Subito mi incammino verso la cima, che è una trentina di metri più in alto ed è coronata dai piccoli romitaggi dei pochi frati che ancora vi soggiornano; sopra a tutti si staglia quello di “Père de Foucault” L’abitazione guarda a oriente. L’interno è spoglio: un corridoio, due stanzette, una delle quali, molto buia, conserva un semplice altare di sasso; nell’altra, come nel corridoio, molti fogli appesi alle pareti parlano della strana e discussa vicenda di questo religioso e riproducono testi di preghiere da lui composte e stralci dei suoi scritti. Uno mi colpisce, perché parla della spiritualità dell’Islam e del fascino che essa ha esercitato sul suo animo, tanto da riavvicinarlo a Dio quando gli pareva di averlo smarrito, proprio per la capacità di questa religione di far vivere Dio nelle cose, di farlo sentire partecipe della vita dell’uomo in ogni momento della quotidianità.     continua "Hoggar"

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