Hoggar


Inserito il: 10/07/2004 da Annuska  Grisendi
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Esco e trovo uno dei frati che è salito, forse per parlare con noi. Sono 32 anni che è quassù. Parliamo un poco di Père de Foucault e della sua vicenda umana. Ci dice che dobbiamo spostarci sull’altro versante per vedere il sole tramontare e che siamo molto fortunati ad avere trovato una stagione così mite e bella; di solito in marzo c’è vento di sabbia e la foschia lascia vedere poco del magnifico spettacolo dell’Hoggar. Davanti al romitaggio lo sguardo si perde in un labirinto di cime, fra le quali dominano le tre punte del Tezuyag. Questo monte ha un fascino magnetico; mi è difficile distoglierne lo sguardo; me ne sto innamorando e sento il desiderio di rimanere sola con lui. Appena gli altri si allontanano, il canto del Kyrie mi nasce spontaneo come un commosso tributo a questa splendida terra, che mi regala un sentimento appagante di appartenenza, quella pienezza che Ungaretti chiama “sentirsi in armonia”.

Solo quando il sole è prossimo al tramonto mi sposto sull’altro versante, per vederlo calare dietro le cime dell’Atakor , immobili giganti sfocati nel controluce. I sassi del pianoro, colpiti dalla luce radente, sembrano tante pepite d’oro e gettano brevi ombre che danno al pianoro un aspetto variegato. Sulla mia testa lunghe nubi striate si alternano a fascie di azzurro; davanti a me l’orizzonte è tutto uniformemente rosato.

Mi siedo dietro una costruzione di sassi al riparo dal vento e appoggio i piedi nudi su un sasso che conserva tutto il tepore del giorno. A contatto col calore della roccia e con gli occhi pieni di sole, aspetto che anche l’ultimo raggio si spenga, prima di scendere quasi di corsa verso il rifugio, per sfuggire all’aria pungente.

Dopo cena faccio conoscenza con Seddik, il touareg che gestisce quasi da solo durante i mesi invernali il rifugio, nel quale, oltre ad alcune camere, c’è una cucina bene attrezzata e un ambiente molto accogliente, con il camino acceso e il pavimento interamente ricoperto di stuoie, tappeti, materassi perimetrali nascosti da coperte multicolori; alle pareti altre stuoie e oggetti della vita quotidiana dei nomadi. Di fronte al camino un grande ritratto con l’ultima regina dei Touareg: un bel viso regolare, con lunghi capelli castani coperti da un velo. “ Elle était meme plus belle!”: un ragazzo touareg, seduto accanto al camino, ha notato il mio interesse. Dove ho già trovato memoria di questa regina dei Touareg, figura emblematica della struttura matrilineare della loro società e dell’importanza della donna come depositaria delle tradizioni orali, dei legami col passato, e punto d’incontro col futuro attraverso il contatto con le anime dei morti? Mi riprometto di fare qualche ricerca non appena sarò tornata e di nuovo la mia attenzione si sposta su Seddik.

Corporatura minuta, viso affilato, mento appuntito, esili baffi neri, labbra mobili, pronte al sorriso. Seddik indossa un gilet di rozza lana bianca a grossa trama, ricamato con fili di lana colorata; il shesh nero ombreggia due occhi vivacissimi, che lasciano indovinare intelligenza, furbizia, intraprendenza. Ci offre il the davanti al fuoco, poi mi mostra con orgoglio la cucina e mi dice che cucina lui, da solo, anche per decine di persone. Insiste ripetutamente per darmi le chiavi di una stanza, gratuitamente credo; gli risulta incomprensibile che a quasi 3000 m., con una temperatura che scende di notte a 8° e con un rifugio a disposizione, io mi ostini a voler dormire sotto le stelle. Nemmeno gli autisti, che pure ci sono abituati, dormiranno fuori questa notte. Ringrazio, ma oppongo una decisa resistenza e porto bagagli e sacco a pelo a ridosso di uno stabile, al riparo dal vento, e mi guardo a lungo le stelle, che quassù appaiono particolarmente scintillanti e ammiccano dalle profondità buie. Peccato questo muro che mi nasconde tutta la parte orientale del cielo! Ma il vento è troppo freddo per permettere di stare completamente allo scoperto. Finalmente qualche stella cadente, e intanto mi cullano le voci di Ahmed, Mohammed, Azoum, Bashir, che dentro stanno facendo conversazione. Come mi sono ormai familiari e come sono diverse l’una dall’altra! Ognuna ha il potere di ricreare l’immagine dell’uomo nella sua interezza fisica e morale: posso immaginare lo sguardo, il movimento delle labbra e dei muscoli del viso, indovinare l’espressione di chi sta parlando solo dal tono della voce, senza capire ciò che dice. E mi rendo conto di quanto siano calde, forti, e pacate le voci dei Touareg. Hanno il potere di accarezzarti dentro, come i loro sguardi. E mi addormento in pace.

Mi sveglio alle 6, alle prime luci, e velocemente prendo il sentiero che sale al romitaggio, per vedere il sorgere del sole. L’orizzonte est è completamente occupato da cime che sorgono diseguali e pallide dalla nebbiosità bruma, come quinte di uno sconfinato palcoscenico; presenze sensibili, come silenziosi giganti addormentati, le più vicine, presenze evanescenti, come fantasmi evocati da un mondo altro, le più lontane. Quando arriva il sole ad incendiare l’oriente, i contorni si sfuocano, le forme perdono peso e consistenza; ma dalla parte dell’occidente le ombre si allungano, le cime si risvegliano al calore del sole che avanza e la luce le sottrae al bagno informe delle tenebre.

Mentre gli altri si preparano alla partenza, mi avvio, sola, lungo la via del ritorno, per prolungare il più possibile la rara condizione di armonia che mi pervade. Il cielo è grigio-azzurro, zigrinato da nubi leggere come riccioli. Ad una svolta mi appare il Tezuyag, proiettato in un alone luminescente come una divinità “in gloria”; e mi nasce prepotente il bisogno di fotografarlo ancora, in questa diversa luce mattutina e da diversi punti di vista, nella speranza che resti imprigionata in queste immagini una traccia dell’anima del grande “Corvo”, che mi accompagni nel cammino della quotidianità e, nei momenti in cui gli orizzonti dell’anima si chiudono, mi ricordi che grandezza e bellezza esistono e una loro scintilla mi appartiene.

Sto diventando “targuia”. O forse lo sono sempre stata, senza saperlo.

Il ritorno è silenzioso. Sento il bisogno di prolungare le sensazioni provate in queste 24 ore. Bashir tace e suona cassette di musica araba. Non l’ascolto, ma mi lascio cullare dai suoni cantilenanti, che fanno da adeguato sottofondo alla mia meditazione, senza disturbarla. Un incontro interrompe la monotonia del rientro: un toyota che sta salendo ferma e ne scende l’autista, un amico di Bashir; non si vedono da molto tempo e l’incontro è caloroso. Li fotografo mentre si stringono la mano e si abbracciano e lo sconosciuto mi dice, col più luminoso dei sorrisi: ”C’est mon ami! Je ne l’ai pas vu depuis 7 mois”. Hanno entrambi l’abito azzurro e il shesh scuro, che incornicia i loro visi bruni, mettendo in risalto la luminosità degli occhi e il biancore dei denti aperti al sorriso. Le loro figure eleganti introducono una animata nota di colore sullo sfondo uniforme del paesaggio. Ma soprattutto è bello il piacere genuino con cui si ritrovano e conversano, dimentichi di tutto: gli altri toyota sono ormai fuori vista, la gente sull’auto ferma aspetta di salire, ma in questo momento nulla importa fuorché il piacere di ritrovarsi. Il resto può aspettare; c’è tempo! Inshallah!

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