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PATAGONIA: terra di armonie selvagge


Inserito il: 30/12/2011 da Giorgio Mancinelli
Email: gioma46@hotmail.it
Sito web: http://www.larecherche .it
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La componente forse più resistente della cultura Qawashqar (6), dei quali ci occuperemo in questa ricerca, è senza dubbio il linguaggio, che sopravvive ancora, seppure in parte, minacciato dall'introduzione di una scolarizzazione in cui si parla solo spagnolo. Probabilmente lo stesso che Darwin ascoltò incontrando gli aborigeni "dal linguaggio sottile", e li trovò così "abietti" da dubitare, che appartenessero alla sua stessa specie. Secondo lo studioso Augusto Raùl Cortazar (7), le aree più interessanti per la ricerca etnologica sono almeno quattro, in ordine: regioni andine della Sierra de Calalaste, Pampa del Chaco, Patagonia, Terra del Fuoco, da cui prendono il nome le relative quattro regioni. Ricerche effettuate sul campo in Patagonia, hanno portato a conoscenza di una comune cultura andina dedita al "nomadismo ciclico": seminano i campi di grano, quinoa, patate, aglio, pepe chili e fagioli sull'altopiano. Parliamo quindi di un popolo di raccoglitori e consumatori di piante e frutta selvatiche, le cui scorie, essiccate, venivano conservate e costituivano una buona scorta per accendere il fuoco .

Questo, era "fondamentale" alla loro stessa sopravvivenza e, una volta acceso, prendevano tutte le precauzioni per non farlo spegnere, poiché riaccenderlo, nel clima freddo e umido dell'arcipelago, non era impresa da poco e significava grande dispendio di legna secca da bruciare. Praticavano un artigianato poverissimo che la famiglia poteva scambiare con altre, oltre al smercio delle prede di caccia e pesca con gli acquirenti locali. Quando il gruppo familiare viaggiava, e solitamente si spostava a bordo di piccole canoe ottenute dal tronco degli alberi, portava il fuoco con sé nella canoa, insieme a un piccolo numero di utensili per lo più attinenti la caccia, come fiocine, trappole, ecc .., finché non lo si poteva mettere nella nuova capanna. Loro unica forma di organizzazione sociale era il piccolo gruppo familiare, le decisioni venivano prese dal capofamiglia, e non c'erano capi o autorità al di fuori del gruppo familiare che veramente contassero. Malgrado ciò la loro condizione economica ne faceva un popolo praticamente nomade ed ogni anno con l'avvicinarsi dell'inverno, i Qawashqar si trovavano a lasciare le capanne e i campi per i burroni e le gole della Cordigliera della Ande, prima che le pastura per le greggi diventino secchi e gelino. Queste erano formate in prevalenza da alpaca e lama e talvolta anche da pecore e capre, tenute in recinti costruiti in pietra dove veniva accumulato lo sterco che sarebbe servito a concimare i campi per il successivo pascolo .

I campi, che nel frattempo, avevano raccolto le piogge, assai numerose, permettevano al bestiame di pascolare sui terreni da pascolo, detti bofadales in primavera, mentre le terre sull'altopiano, così concimate e irrigate, sarebbero state pronte per la semina, quando i gruppi avrebbero fatto ritorno nei villaggi per mietere il raccolto alla fine dell'estate. Una delle principali funzioni della comunità tribale era l'organizzazione e l'allestimento delle feste che si basavano sull'esistenza di forze e spiriti presenti nella natura, e che l'uomo spesso, secondo una concezione animista, doveva onorare e placare, con offerte e olocausti. Si narra che fu proprio il grande navigatore a dare a questa estrema landa il nome di Terra del Fuoco, dopo aver avvistato numerosi falò accesi giorno e notte lungo le coste dello stretto che oggi porta il suo nome, e scambiò per le "anime dei morti che bruciavano all'inferno". Una delle feste più importanti, che ritroviamo nelle diverse regioni, è chiamata del floreo, che si tiene nel corso dei mesi estivi, in cui gli animali del gregge vengono agghindati con ornamenti coloratissimi. Floreo deriva dalla parola "flor" che significa fiore, e poiché non ci sono fiori sull'altipiano, gli ornamenti sono fatti con lana multicolore. La festa è una gioiosa celebrazione delle greggi, in cui le diverse tribù trovano l'occasione per fare musica insieme e cantare, soprattutto, per tramandare la narrazione dei "miti" tribali che alcune leggende fanno risalire all'origine del tempo .

La "narrazione di un mito" è il contenuto di una registrazione eseguita sul campo durante le riprese di un documentario sulle tribù della Patagonia, riferita proprio ai Qawashqar , dal titolo: "Atqashap" (8), linguisticamente parlando il topo, allo stesso tempo identificato con la gente della tribù che l'ha tramandata seguendo il peculiare concetto secondo cui essi chiamano "canzone" quella che per noi sarebbe una "narrazione". La storia consiste in un numero di episodi che si riferiscono a Atqashap, per mezzo dei quali sono messe in risalto le sue virtù: "Uomo come me, ma topo. / Sono i primi uomini...". In essa si riflettono le origini della vita e della storia della gente Qawashqar. Il narratore parla in un ritmo speciale adattato al contenuto semantico di cosa si sta dicendo, e adopera un linguaggio pieno di arcaismi, la maggior parte dei quali è incomprensibile per la presente generazione. Questo linguaggio costituisce un'improvvisata manifestazione rituale, forse la sola ancora conservata oggi. L'idea centrale del mito è la lotta fra Atqashap e Silum "il male", che è situato geograficamente al Nord. Questa potrebbe essere allusiva degli invasori che arrivavano sempre da quella direzione. Nel corso degli altri episodi astuzia, velocità e coraggio sono messi in rilievo come virtù fondamentali fra le altre: "Silum viene dal Nord per uccidere Atqashap, ma quest'ultimo imbroglia il suo nemico travestendosi, e poi nascondendosi in una testa di delfino, cosicché Silum lo colpisce alla testa credendo di averlo ucciso". In un altro episodio: "Silum solleva il suo bastone per ucciderlo, ma Atqashap, essendo un topo, corre sulla cima del bastone salvandosi (la dinamica della velocità è imitata nella narrazione)". Ciò è confermato nell'episodio in cui: "Atqashap ha dell'acqua nascosta in un piccolo pozzo, e deve berla velocemente per poi nasconderla di nuovo, in modo che Silum non la trovi" (9) .

Molta parte del linguaggio usato nelle canzoni, ad esempio, consiste in parole senza senso usate in forma onomatopeica in cui, la ripetizione di una stessa frase o parola, emette un suono, si combina in ordine con le altre, se scandita crea ritmo, se cantilenante crea consonanza. Un esempio è dato da una canzone molto in voga, di cui esistono molte versioni e conosciuta anche al di fuori del contesto regionale, dal titolo "Chichili" (10) che, nel ricordo della gente è una canzone d'amore che parla di qualcuno che si sta innamorando, anche se nessuno ricorda il preciso significato delle parole. Nella versione più complessa di questa canzone, Chichili sta a significare "desiderio di tenere, di mantenere": "yapashquna goles warlay yetenaq achal" corrisponde a "l'amante abbraccia una donna". Si è cercato, in fase comparativa, di avvicinarla al chequa, lingua tipica parlata lungo tutta la Cordigliera delle Ande, ma inutilmente. E non solo, risulta diverso anche il modo di cantare, come diversi sono gli strumenti arcaici, dal suono molto singolare: il pinqalyo o pinkullu, è una sorta di flauto di canna con 4 o 5 fori rintracciato sull'altipiano andino, suonato trasversalmente durante la pastorizia. Un noto canto entrato nella tradizione e solitamente accompagnato dal pinkullu ha un titolo intraducibile "Sumirumansanisa" (12); si tratta di una canzone laudatoria di contenuto agreste, le cui parole di lode sono rivolte alle montagne sacre "raffigurazioni di mitiche divinità". In essa un pastore invoca la "mamala" (madre natura), anche detta "pacha-mama" (nelle regioni andine), affinché protegga il suo gregge di lama dal correre troppo velocemente, sì da fargli temere di perdersi nella nuvola di polvere che solleva e di finire in qualche dirupo .

Dalle regioni più interne, sorvolando l'immensa distesa che il sole, incendia fin dalle prime ore dell'alba: "in una di quelle albe che dopo la tempesta, appaiono come la rinascita del mondo", si nota chiaramente la parziale utilizzazione a culture agrarie sparse sul tessuto umido e fertile della Pampa, una terra apparentemente senza confini, mentre la gran parte di essa è deserta, rotta solo da rari ciuffi d'alberi stravolti dal vento, percorsa da branchi di bestiame, per lo più bovidi in masse caracollanti di groppe a migliaia in cerca delle distese d'erba utilizzata per i pascoli assai numerosi. Piccoli centri abitati e fattorie segnano una ragnatela di civiltà che, con il maggiore sviluppo dell'agricoltura, la stanno cambiando in parte l'aspetto selvaggio che la distingueva. Attorno alle estancia, le fattorie, si vedono molte oasi verdi dette cascos, rigogliose di eucalipti, pioppi e alberi del paradiso, piantati dalla mano dell'uomo. Alcuni talmente isolati, da sembrare verdi isole sperdute nella vasta pianura; altri, formati da un solo grande albero: l'ombù, tipico di questa regione, entrato nella leggenda e nelle canzoni popolari, punto di riferimento e di ritrovo per uomini e animali che vi trovano riparo dal sole cocente del giorno e dall'umido pungente della notte .

Ben presto si è immersi nella Pampa più selvaggia, piana e asciutta, senza punti di rilievo, continuamente spazzata dai venti che raggiungono sovente la violenza dell'uragano, quando non è la bonaccia a farla implodere sotto il sole infuocato. È questa la terra detta "del silenzio" che si estende dalle Ande, al Chàco, al Paranà, fino all'Atlantico e la Patagonia, terra leggendaria dei gaucho errabondi che vanno alla ricerca delle distese di verde per le loro mandrie. Infatti, all'indirizzo dei gaucho assetati d'ombra e di riposo, sono indirizzati i racconti di gesta leggendarie, come anche degli eroi che un tempo hanno soggiornato e attraversato la Pampa, ed entrati nella letteratura ufficiale. Uomini come "Martin Fierro", eroe dell'omonimo poema di Josè Hernàndez (12) che la solitudine della Pampa ne ha fatto un uomo altero e poetico, il cui personaggio romanticissimo, alimenta ancora oggi la fantasia sudamericana sulla figura del gaucho, di cui leggiamo un passo: "Aquì me pongo a cantar, / al compàs de la viguela / que al hombre que lo desvela / una pena extraordinaria, / como el ave solitaria / con el cantar se consuela" .

"E qui mi metto a cantare, / al compàs della viguela / che all''uomo che lo svela / una pena straordinaria, / come l''uccello solitario / col cantare si consola" .

Al mitico gaucho è dedicata più di una canzone, come ad esempio quella qui riportata:

"Quando mia sarà la terra, seminerò parole / che mio padre, Martin Fierro, diede al vento ... / Quando mia sarà la terra, io ti giuro semente / che la vita sarà un dolce grappolo / e nel mare dell'uva il nostro vino. / Quando mia sarà la terra, darò alle stelle / astronauti di messi, la luna nuova ... / Quando mia sarà la terra, formerò con i grilli / un'orchestra, dove possano cantare / quelli che pensano" (13)     continua "PATAGONIA: terra di armonie selvagge"

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