Cina. Nanchino, vera Cina...


Inserito il: 30/10/2007 da Claudio Montalti
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Ero molto indeciso tra aereo e treno per raggiungere Nanchino, la capitale del sud, ma devo dire che, lunghezza a parte, è stata una buona scelta. Avevo letto di alcuni tratti sono a dir poco spettacolari, un vero viaggio in sé, e mi fa piacere esserne testimone. Ad esempio, il treno da TaiYuan a Xian e poi da Xian a Chengdu è formidabile. Pochi gli occidentali a bordo, ma tralascio questa parte per affrontarla in un nuovo articolo. Sono giunto a Nanchino con un giorno e mezzo complessivo di treno diviso in più tappe. Non so quanta parte abbia avuto il fatto di essere giunto in questa città dopo un buon ambientamento, ma di sicuro questo mi ha facilitato la visita. Anzitutto, sono riuscito a muovermi come più mi pareva e piaceva, sempre in via del tutto relativa naturalmente. Parecchi sono stati i fuori programma, tra cui una lunghissima scarpinata di 13 chilometri a raggiungere il mio albergo, a sera ben inoltrata, sul filo del coprifuoco.

Libero nella città, ho subito imparato cosa significa "guidare come dei cani". Non sono in pericolo solo le auto, le bici, i risciò, ma anche e soprattutto i pedoni. Serve un'attenzione continua, anche quando si è sui marciapiedi, di più non appena ci si sposta verso la periferia. Ogni strada è un fluire e rifluire senza alcuna regola apparente di auto, camion, bici, carretti, animali, risciò, taxi, autobus, tutti stracarichi di gente o di merci. I cinesi passano da ogni lato, invadono le carreggiate altrui, non rispettano la minima prudenza, e suonano il clacson a manetta mentre impongono - o tentano di farlo - la legge del più prepotente o temerario, eppure sembra non succedere mai nulla. Il traffico caotico, onnipresente, diventa quasi un ricordo lontano mentre visito la parte vecchia della città. Mi è piaciuta molto. Le case in antico stile cinese, alcune perfettamente ristrutturate, altre meno, mi hanno ricordato le lunghe passeggiate nell'Habana Vieja.

Qua e là, vicoletti si allungavano dalla via principale. Ogni volta, l'impressione è quella di un impenetrabile muro di oggetti, panni stesi ad asciugare, odori e rumori, e ogni volta proseguo finché all'ennesimo non soccombo alla mia curiosità e mi inoltro, serpeggiando tra filari di lenzuola, rifiuti, mobili e gente, soprattutto gente. C’è chi gioca a carte, a dama, o mah jong, oppure chi chiacchiera o commenta la TV, chi sonnecchia pigramente o chi bada a un bambino. Quasi tutti alzano gli occhi su di me e mi indicano l'un con l'altro. Qualcuno mi chiama o mi saluta con un “Ni hao". Ignoro gli altri, quelli che mi seguono fissamente con gli occhi. Confesso che le prime volte, quei volti e quegli occhi e l'assoluto grigiore mi intimidivano un po'. Ora non più. Anche se ad una prima impressione non sembra, sono solo curiosi nel vedere un occidentale - altrettanto curioso - laddove non ne sono mai stati visti o quasi.

Rinfrancato, mi allontano sempre più dalla via principale. I vicoli diventano sempre più poveri, gli odori più terribili seppure ravvivati di tanto in tanto da gustosi aromi di cibi che sobbollono nei wok. Di tanto in tanto, passo davanti o in mezzo a qualche artigiano all'opera. Saluto e fotografo, strappo sorrisi e persino risate quanto tento di comunicare per scoprire qualcosa di più. Qualcuno starà ancora parlando di me, specie delle quattro o cinque gaffe che ho fatto, tra cui uno scivolone che per poco non mi infilava diritto in una fogna a cielo aperto. Sbircio curioso all'interno delle case le cui porte sono spalancate sul vicolo per sfuggire alla calura umida. Ovunque, le foto dei defunti sono appese alle pareti, a volte con un lumino o un fiore, oppure accompagnate da un oggetto, ma spesso senza nulla. La cremazione obbligatoria per legge, le ceneri tumulate nei cimiteri fuori città e scomodissimi da raggiungere, ha imposto qualcosa di più pratico a tutti coloro che desiderano rendere quotidianamente un pensiero, una preghiera o un omaggio ai propri cari.

Qua e là si aprono piccoli mercatini, indispensabili alla sopravvivenza in una città tanto estesa, in un quartiere che da solo deve contare centinaia di migliaia di abitanti. Vi si vende di tutto, dagli animali domestici di ogni tipo agli animali mangiare ancora vivi (cicale... rospi... tartarughe), dai servizi da tè agli oggetti di uso quotidiano, dai giochi ai vestiti, a radio, orologi, ceramiche, vasi, incensi... C'è la frutta fresca, pesce, cibo fresco o cibo da asporto in grossi cesti di bambù (ravioli cotti al vapore, spaghetti croccanti e riso, riso, riso, in mille salse e mille maniere...). Non passo inosservato, come potrei?, ma i mercanti, più aperti, mi invitano in continuazione a fermarmi, a toccare la merce, ad assaggiarla. Mi faccio forza per non comprare nulla perché so che, poi, non ne uscirei vivo, ma cedo davanti la libretto rosso di Mao, ovviamente l'originale, ovviamente in cinese. Chissà quali mani l'anno tretto, stropicciato, coccolato e, dulcis in fundo, usato come motivo per infliggere dolore a uomini inermi. Nanchino cela pagine tra le più dolorose della storia recente della Cina.     continua "Cina. Nanchino, vera Cina..."

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