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Pelurinho, Salvador, Brazil

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Brevi impressioni sul Pelourinho, il famoso quartiere dei divertimenti di Salvador, stato di Bahia, Brasile, a cura di Dario Claudio Bonomini - Inviato il 17 maggio 2005 da 1311.

Pelurinho, Salvador, Brazil

Da queste parti l’oscurità cala improvvisa poco dopo il tramonto.

Al Pelourinho, nello stesso momento, come per una sapiente regia che ogni sera si ripete puntuale, la vita si riaccende di luci e di suoni, e il grande palcoscenico della strada va lentamente rianimandosi. Migliaia di individui, interpreti delle emozioni più particolari, percorrono quel saliscendi di strette vie dal grosso acciottolato che tortura i piedi, sospinti o trascinati dai blocos, le piccole bande di strada che suonano jazz, axè, samba e qualsiasi altro ritmo che come in una sorta di rito collettivo costringa a muoversi.

Una fiumana vivente che mai si arresta, una transumanza continua da un cortile ad un altro, magari più piccolo ma stracolmo di gente che balla, da una piazza ad un’altra poco più oltre. Un entrare ed uscire frenetico da cantine, bettole fumose, discobar dove la musica reggae e la birra regnano come sovrani incontrastati, e dove la voglia di trasgressione è palpabile. Ad ogni angolo di strada aleggiano i fumi e i vapori di strane cibarie.

Le narici sono riempite dal puzzo acre di spiedini di formaggio, bruciacchiato su piccoli fornelli portatili, o da quello più dolciastro di grosse polpette arancioni che enormi negre dalla pelle incartapecorita friggono senza sosta in padelle ricolme di olio nerastro; dall’aroma inconfondibile della maconha che rende più leggeri, o dal tanfo di orina che emana fetido dai muri impregnati delle case e sale dagli stretti marciapiedi. Odori forti e penetranti che ristagnano nell’aria pesante esasperati dal caldo afoso, e che l’umidità incolla addosso con il proprio sudore.

Come sangue nelle vene, la vita scorre dalle luride strade fino ai piani alti del Pelourinho, negli splendidi palazzi barocchi dei nobili portoghesi dell’epoca coloniale, trasformati al loro interno per accogliere i nuovi abitanti delle notti sfrenate di fine millennio.

Sull’antico balcone in ferro finemente lavorato, il biancore diffuso di una luna esagerata sottrae all’oscurità quella figura sinuosa che l’avara illuminazione della via non avrebbe altrimenti svelato. Tiene le mani appoggiate alla ringhiera muovendo insolente il bacino a tempo di musica, e si cala con le cosce oscenamente aperte sopra ad un immaginario membro maschile, usandolo secondo il ritmo, con tempi e pause sapienti, per il proprio simulato piacere. Al termine della discesa lo spegne, come i sagrestani delle chiese barocche con gesto quotidiano soffocano i mozziconi ancora accesi e colanti di quelli che erano grossi ceri, calando dall’alto il piccolo cono rovesciato posto all’estremità del lungo bastone. Un paragone forse irriverente o addirittura blasfemo, ma in una città così spirituale e nello stesso tempo così magica, provocante, sfrontata, piena di chiese e di santi, di terreiros di candomblè e orixas,e dove anche il piacere più carnale è sacro, non certo troppo azzardato.

Ora di nuova eretta sulle lucide gambe snelle, si accarezza sapiente i fianchi stretti portando una mano a coprire l’inguine per scoprire contemporaneamente dal cortissimo indumento che indossa, i glutei piccoli e perfetti. Gioco puerile o consapevolmente spudorato, è un invito brutale, e la voglia esplode violenta dove il ventre finisce.

Le scale si arrampicano ripide e strette nel buio di un interno fatiscente di legno marcio e muffa. Veli di garza trasparente pendono dall’alto come grandi ragnatele, e insieme a quelle vere sfiorano il volto di chi sale. La musica che scende avvolge vibrante, ipnotica come le note di un pifferaio lussurioso che costringe a salire sempre più su. Quella che sembra una prova, una ascesa interminabile e inquietante ha fine in un oscuro boudoir. Appena si intravede un grosso divano di velluto rosso occupato da pochi maschi mollemente sprofondati e abbracciati gli uni agli altri. Solo qualche rara candela rompe l’oscurità di questa specie di spelonca, dalle pareti e dal soffitto persi nelle tenebre.

Solitaria, sotto una lama di luce argentea, con i lunghi capelli che le coprono il volto, balla stordita dalla techno ossessiva, aggressiva, che martella le tempie e rimbomba nello sterno. E’ attorniata solo da uomini. Uomini dalle movenze meccanicamente ripetitive che come in trance si guardano negli occhi senza curarsi di lei. Altre braccia adesso, altre mani ansiose incominciano a muoversi come spiriti nella penombra. Si protendono cercando di sfiorare, toccare, afferrare quel corpo ambrato, sudato e sgusciante, che solo per brevi momenti si lascia tenere, rimanendo però sempre di spalle.

Tanto basta alle dita rapaci ormai sfuggite ad ogni controllo per insinuarsi sotto il corto vestito scorrendo nel solco delle piccole natiche ancora adolescenti, e arrivare così, quasi a tradimento, alla fessura umida del suo piccolo sesso nero. Non porta mutande e prenderla sembrerebbe così facile, averla anche lì, in piedi, così naturale. Nessuno ci farebbe caso. La sua mano minuscola afferra l’altra più grande, sconosciuta, famelica, e quasi con grazia, ma risoluta ,la respinge. Si volta e con gesto nervoso allontana i capelli che le nascondono il viso. E’ giovane, bella, occhi febbrili e labbra sottili che si aprono in un lieve sussurro. - “No, non qui. Vieni con me.”- Le sue piccole braccia sono protese nell’invito. E’ completamente smaniosa, in ecstasy.

“Vieni, ti prego....... che ti prende? Non ti va più?” Il sussurro si altera in una imprecazione -“Bastardo, non sarai anche tu un finocchio?” -

E’ l’alba, e come ad ogni stanco risveglio, enormi idranti sparano con violenza acqua e sapone lunghe le strette vie del Pelourinho spazzando via quel che resta della notte ormai passata. Un liquido scuro scorre sopra i grossi ciotoli che torturano i piedi portando in basso cumuli di rifiuti che fino a pochi istanti prima avevano fatto la gioia di magri cani famelici. Sotto l’acqua di una fontanella una mano si sta lavando, lentamente. Svanisce così, con rimpianto, quel piacevole afrore che l’aveva per un attimo contagiata. (Pubblicato il 17 maggio 2005) - Letture Totali 90 volte - Torna indietro



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