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Huancayo-Uchiza, 700 km dalla sierra sconosciuta alla selva dimenticata


Inserito il: 14/09/2004 da Andrea Ravaglioli
Email: adeneb@infinito.it
Sito web: http://www.viaggiatorionline.com/profile.asp?id=andrea+ravaglioli
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All’albeggiare si ha la netta sensazione di addentrarsi in un documentario. La strada, che costeggia a debita distanza il Rio Huallaga, é accompagnata da piccoli palmizi (cocco, banane, aguaje), piccole piantagioni di papaia, selva, capanne di legno e paglia, casette di adobe con tetto di paglia o lamiera, misere chiesette di avventisti, evangelici e santoni o quelle meno misere, ma comunque spartane, di cattolici. Le forme di vita animale (data l’ora sono poco più che ombre) sono i bimbi che indugiano sulla porta delle capanne. I loro padri, già in giro con il machete a piedi o su scassate biciclette. I loro fratelli sono già in cammino verso qualcosa che abbia la forma di un villaggio con relativa scuola. Le loro madri sono intente a pettinarsi o ad accendere un fuoco. I loro cani, maiali e polli sono... incuranti di tutto ciò che accade loro introno.

Ogni tanto, la strada regala qualche lungo rettilineo, debitamente costellato di muretti che ostacolano la circolazione di quei pochi mezzi che osano percorrerla. Sono muretti che, negli anni d’oro del narcotraffico, impedivano l’atterraggio degli aeroplanini che trasportavano foglie e pasta di coca verso le zone di raffinazione e produzione della cocaina. Ora nella zona, pur rimanendo una presenza, seppur discreta, di senderisti e trafficanti, la situazione é decisamente più tranquilla. La lotta contro il narcotraffico è condotta principalmente con denaro americano, purtroppo ogni dieci dollari stanziati, agli ex cocaleros (coltivatori della pianta della coca) ne giunge uno solo e gli altri nove finiscono in stipendi dei funzionari e nelle operazioni di maquillage necessarie per mascherare il vero intento di tale “cooperazione”, mirante ad imporre un monopolio nel mercato della cocaina, partendo dalla sua fonte. Molte coltivazioni di foglie di coca sono state convertite o semplicemente distrutte con devastanti prodotti chimici che hanno reso inutilizzabili i terreni per molti anni, senza peraltro che siano giunti gli aiuti economici promessi agli ex cocaleros. Le rimanenti sono meno facilmente visibili.

Riguardo la riconversione, questa non sempre é possibile o remunerativa. Infatti la pianta della coca necessita di terreni poveri, e di poche cure, caratteristiche difficili da trovare in altri tipi di coltivazioni, come dire che questo territorio é fatto proprio per la coca... Non per niente la si coltiva da secoli, inizialmente per il consumo delle popolazioni andine, successivamente per l’industria della bibita e della droga, e infine e attualmente anche per farne prodotti di più largo consumo. Un quindicinale (Ollanta) fortemente nazionalista, portavoce delle istanze di cocaleros, etnie indigene e antiamericanisti, elenca in una cinquantina i prodotti in commercio, ottenuti attraverso la lavorazione della sua foglia: medicinali, the, integratori, bevande, prodotti erboristici ecc per ribadire l’importanza di tale pianta per fini estranei al traffico, un'importanza che significa lavoro per molti laddove il lavoro scarseggia.

Il procedimento di raffinazione della foglia di coca per creare la pasta, destinata alla produzione di cocaina é, a dir poco, allucinante. Per macerare le foglie, in apposite piscine, si usano acqua, calce e cherosene! La pasta viene successivamente raffinata per estrarne l’alcaloide (cocaina) e trasformarla in droga, ma questo avviene per lo più altrove. Qualcuno quella pasta se la fuma. Finisce il tratto pavimentato, ma non il documentario. C’é la luce che svela i particolari e i colori. L’arancione delle noci di cocco ancora sulla pianta, il blu delle divise del collegio (poveri sì, ma tutti in divisa!), il rosso degli slogan elettorali dipinti direttamente sulle capanne, il verde della vegetazione, il nero degli occhi della gente che ora procede meno zombescamente, il beige della polvere o ancora il rosso dell’argilla che solleviamo passando. Il grigio del radiatore di un Volvo. Ogni camion é un Volvo, in Perù... Costeggiamo il fiume Huallaga, che dà il nome alla valle, fino ad incrociarlo ed attraversarlo su una zatterona, perché il ponte ancora qui non c’é. A Santa Lucia scendono due persone... ed una gomma. Bucare é normale su queste strade. Bucare per un chiodo di 5 cm anche. Toglierlo, pulire la foratura e ripiantarlo dentro per non cambiare la gomma é diabolico. Sperare che tenga é peruviano. Così decidono di fare il taxista, che sembra avere fretta, ed il vulcanizador (gommista) a cui si é rivolto. Una pompatina e si riparte.

Una donna con due bimbe piccole ci chiede un passaggio, indicandoci poco più in là da dove é venuta il posto in cui recuperare il suo bagaglio. Il bagaglio sono 5 sacchi di arance da 40 chili l’uno che, a fatica, riusciamo a caricare nel baule spazioso dell’auto. Si riparte, ma solo per impartire il colpo di grazia al pneumatico, che si affloscia del tutto. Schumy, perché da Tingo Maria non ha fatto altro che correre come se avesse i cingoli al posto delle gomme, dà un’occhiata dallo specchietto. Questa volta si cambia. La ruota di scorta sembra più una camera d’aria: non c’é battistrada neanche a pagarlo, ma arriviamo ad Uchiza, ex capitale della coca. Un passato intenso, un presente di transizione ed un futuro quanto mai incerto... come in tutto il Perù del resto. Gli anni d’oro del traffico qui non hanno lasciato nulla di concreto. Forse i veri affari si compivano in Colombia dove il prezzo della coca raffinata andava alle stelle. Forse lo stretto legame tra traffico e senderisti non consentiva di lasciare tracce.     continua "Huancayo-Uchiza, 700 km dalla sierra sconosciuta alla selva dimenticata"

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