Khartoum, Sudan


Inserito il: 28/11/2007 da Robo Gabr'Aoun
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La Pepsi è finita e guardo costernato il mio pezzetto d’acciaio prendere la via del tornitore, a qualche centinaio di metri; inch Allah tra un‘ora forse avrò finito, chissà. L’ora passa. Intanto è arrivata la pausa sacra delle 10 del mattino, e tutta Mantega si accuccia a terra intorno ai giganteschi piatti da portata di stagno, ricolmi dell’immancabile full, la zuppa di fave che rappresenta l’alimento principale in Sudan. Mi accuccio anche io, invitato dai ragazzi in tuta, ad intingere il mio pane nel grande vassoio unto, a leccarmi le dita prima di rituffarle nell’intingolo, assolutamente uguale agli uomini che mi circondano. Non mi associo al rito del rutto liberatorio, costume diffusissimo in questo Paese, né a quello del tabacco da masticare. Ancora non sono abbastanza “africano” da riuscire a contemplare l’idea di camminare sputacchiando qua e là sugo di tabacco come fosse la cosa più naturale del cosmo. Bevo il mio karcadè annegando la noia dell’attesa cercando di non pensare alla mole di cose da fare che mi attendono, che tanto non ci posso fare nulla, inutile parlare di tempo che stringe qui.

Accade in un attimo: tutti si alzano improvvisamente, le porte di ferro dell’officina chiuse, le luci spente, i generatori ritirati… Che succede? Fuggi fuggi generale, tutti in strada. Oddio, ma che succede? Nella via polverosa tutte le botteghe stanno serrando i battenti, e la striscia di ombra ai piedi dei muri si sta popolando di centinaia di uomini, seduti o sdraiati, insomma tutti sembrano deporre le armi. Mi volto sconsolato a guardare il cofano aperto del mio Toyota, penso al mio minuscolo alberino che in Italia mi avrebbero già piazzato da circa tre ore e…mi viene da piangere! Ma cosa cavolo succede? Niente, kawajia, niente di grave: tra un’oretta riapriamo tutto, stai tranquillo… Come stai tranquillo! E il mio alberino da tornire? E finalmente mi spiegano, senza pudore: alla periferia di Mantega sono arrivati i funzionari del Governo, gli esattori delle tasse, e il passa parola si è diffuso come un’onda tra i vicoli, di bocca in bocca, con i pochi telefoni disponibili, con le urla dei ragazzini mandati avanti come messaggeri della sventura incombente. Tutti hanno chiuso. Perché? Bè, semplice, mi dice un sudanese con le braccia che paiono querce: gli esattori prelevano denaro per le tasse da chi ha degli utili; se la bottega è chiusa è ovvio che non c’è lavoro, e se non c’è lavoro non ci sono utili da tassare. Chiaro no?

Mi cadono le braccia, battuto da questa logica primordiale. Mi siedo anche io all’ombra del muro, accendo la mia Bringi, sigaretta insapore buona solo a far tossire come un tisico, arreso a questo mondo che non ha regole, non ha certezze, non ha ore…La limousine dei governativi passa per la via, seguita dai sorrisi sornioni degli uomini. Nessuno riapre, mica sono fessi i governativi: sanno bene che aspettano solamente la loro dipartita per riprendere a lavorare. Passa un’ora. Il mio alberino è ancora nella tenebra dell’officina del tornitore, sprangata con il chiavistello! Lo sento. Non andrò mai più via di qui, invecchierò seduto accanto a questo muro. La mente vacilla, sono in preda alle visioni, impazzisco…

Un’altra ora ancora, e tracanno non so quanti chaij, karcadè, caffè, pepsi… Gioco con i sassi della via, facendo piramidi di ciottoli da abbattere a sassate: gli uomini seduti mi guardano quasi con pietà. Povero kawaija… Non si riapre di oggi... Troppo rischioso. Il meccanico, preso da un raro senso di umanità, spinge in strada il mio 4x4, richiudendo velocemente i battenti della bottega, non si sa mai. Ha in tasca una manciata di chiavi e cacciaviti. Un capannello di uomini si accalca intorno al mio cofano. Voci che discutono, mani che lavorano. Li guardo assente. Facciano quel che vogliono.

Un’altra porta si apre e si richiude come un lampo, ed il borbottio di un generatore sfugge dall’uscio sbarrato. In pochi minuti, il mio alberino compare lucidato come nuovo, perfettamente alesato. Una cortina di uomini fa da schermo intorno al Toyota, mentre un discreto numero di schiene sta chinato sopra il mio cofano aperto. Vedette ai lati della via scrutano il movimento veicolare nelle traverse, mentre l’esercito degli sdraiati scommette sul fatto che la limousine comparirà come un gatto sul topo. Invece non arriva. Rumore di lamiera che sbatte, poi la voce celestiale del mio sei cilindri rompe il brusio del chiacchiericcio nella via. E' un rombo possente quasi come un grido. Di certo, anche il Toy non ne poteva più di aspettare. Mi mandano via velocemente. Ci vediamo domani per pagare, mica apriamo l’uffico ora,sei pazzo? Scappo come un ladro, alzando la polvere, inconsciamente anche io terrorizzato dall’immagine della limousine, come un’auto diabolica, una Christine sudanese… Ecco il canale, ecco l’asfalto, ecco il traffico bestiale di Khartoum. Sono fuori, oddio sono fuori!

Guardo l’orologio, sepolto nel cassettino dell’auto, che tanto qui a che serve un orologio: le 17. Il giorno se n’è andato, penso, mentre mi infilo nel serpentone di mezzi scalcagnati che intasa la strada per il centro. Mi aspetta ancora il mercato, altra babele, altri colori… Ma questa è un’altra storia.

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