Cuba. Playa Esmeralda


Inserito il: 14/11/2007 da Roberto Goracci
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C’era una volta una spiaggia, una stretta striscia di sabbia bianca fra l’azzurro dell’oceano e il verde intenso degli alberi di uva caleta. La gente la chiamava Estero Ciego (laguna cieca) per via della piccola laguna circondata dalle mangrovie, che si sviluppava a pochi metri dal mare, alle spalle della spiaggia. Era un paesaggio semplice e selvaggio che parlava con il respiro dell’aliseo e il fruscio delicato delle onde sulla sabbia.

Poi arrivarono gli ’80. Gli anni in cui Cuba cominciò lentamente ad arrendersi al turismo. Quando costruirono il primo albergo, a Estero Ciego furono piantate delle belle palme da cocco, per avvicinarsi al modello di spiaggia da cartolina. Le palme da cocco non sono originarie di Cuba. Cubana è la Palma Real, simbolo del paese, altissima, con il suo elegante tronco bianco e affusolato ma senza cocchi e per questo, forse, non abbastanza esotica per i depliant dei tour operator. Con la costruzione del secondo albergo qualche genio del turismo pensò che anche il nome della spiaggia non fosse abbastanza attraente, Estero Ciego non suonava bene, quel ciego ricordava troppo un handicap fisico. Fu scelto quindi un nome falso come Manuel Fantoni, ma di sicuro effetto: Playa Esmeralda. Quando si avviò la costruzione di un terzo hotel, a cinque stelle, sembrò che la esile spiaggia neobattezzata non sarebbe stata in grado di accogliere il numero crescente di turisti. Come fare?

Un giorno, a qualche centinaio di metri dalla riva, apparve la soluzione: una draga. O meglio, un immenso ammasso di ferraglia ossidata da cui partivano, in tutte le direzioni, lunghi bighi orlati di cavi penzolanti. Questa sorta di aracnide rugginoso era collegato alla spiaggia da una conduttura metallica, rivestita a tratti regolari da fasce arancioni di materiale espanso che ne assicuravano la galleggiabilità. Somigliava a un lungo bruco gibboso che sputava sulla riva un potente getto di acqua mista a sabbia bianca, rocce coralline e conchiglie. In tre giorni la battigia avanzò di trenta metri. Della vecchia Estero Ciego non rimane più nulla. Ora, la nuova Playa Esmeralda ha tutte le carte, anzi le cartoline, in regola. Peccato che, dopo l’ultimo «intervento», l’unica forma di vita rimasta a sguazzare nelle sue acque cristalline sia il bagnante europeo.

C’era una volta un campesino di nome Mongo Viña, che viveva in un Conuco isolato in mezzo alla vegetazione, sulle rive di Bahia de Naranjo. Allevava maiali e galline, coltivava yucca e curava i suoi alberi di platano e ogni tanto, con la sua piccola barchetta, andava a pescare nella baia. Con lo sviluppo turistico della zona circostante Playa Esmeralda, Mongo Viña fu «invitato» a sloggiare dal suo paradiso, troppo vicino ai nuovi alberghi. Tutta l’area di Bahia Naranjo e Playa Esmeralda è stata convertita in parco naturale e viene amministrata dalla Albatros che è un’impresa turistica dipendente dal ministero delle Forze Armate Rivoluzionarie e che possiede varie installazioni alberghiere a Cuba. Io lavoro per la Albatros e quindi sono un dipendente del minfar, come è scritto sul mio permesso di lavoro. Nella casa di Mongo Viña, oggi ci vivo io. L’alternativa che mi proponeva la Albatros era una comoda stanza d’albergo, ma con Hush, non ho potuto neanche prenderla in considerazione.

La casa è stata mantenuta come quando ci abitava Mongo Viña. All’interno un paio di stanze da letto che definire spartane è un complimento, un bagno e una zona cucina, costituita da un lavandino e un traballante frigorifero russo. La casa e il ristorante sorgono in una radura tra la fitta macchia, circondate da alcune palme da cocco sotto cui zampettano spensieratamente galliformi e suini. Seguendo per pochi metri un viottolo che si infila tra le mangrovie, si scende fino a un moletto che si protende sulle acque calme di un’insenatura profonda e frastagliata: Bahia de Naranjo. Da qui vedo bene il delfinario che sorge in mezzo alla baia e in uno squarcio tra le mangrovie si distingue la Marina.

La mia casa... quando la vidi per la prima volta rimasi folgorato: era molto vicina a quello che avevo sempre sognato. Hush correva in cerchio latracchiando, si infilava tra i banani sgambettando fragorosamente sulle grandi foglie secche, scendeva sul molo, si tuffava, poi nuotando approdava tra le mangrovie divincolandosi nel dedalo di rami e foglie fino a ritrovare l’uscita, bagnato, con la lingua a penzoloni e il sorriso del cane felice. Un po’ meno felice fu Alberto quando Hush azzannò due galline uccidendole. Dovetti risarcirlo, pagandogli cinque dollari a gallina. Era il triplo del prezzo normale e un chiaro messaggio: metti la museruola al tuo cane. Con il mio cane feci un discorso usando anche le mani e i piedi e da quel giorno convisse con pavoni, tacchini e galli senza ulteriori problemi. Con qualche lavoretto ho tentato di rendere la casa non dico lussuosa, ma almeno simpatica. Sono riuscito anche a rimediare un televisore, ma riceve soltanto TeleRebelde, che trasmette esclusivamente lunghissime telecronache di beisbol o interminabili monologhi di Fidel Castro.

Si sono rivelati utilissimi invece i due condizionatori che mi sono portato in barca da Saint Martin. Li ho installati nelle camere così danno un po’ di sollievo durante l’ora degli jen-jen, i microscopici insetti che due volte al giorno, all’alba e al tramonto, salgono a sciami dalle mangrovie sottostanti. Sono praticamente invisibili a occhio nudo, ma ti si appiccicano addosso a decine mordendo la pelle ferocemente. Non sentono né repellenti né bestemmie. A chi non è abituato possono lasciare sulla pelle dei vistosi punti rossi che permangono per alcuni giorni. Le uniche difese sono un potente ventilatore o l’aria condizionata. Fortunatamente l’attacco degli jen-jen dura solo un’oretta. Poi quando arriva il buio se ne vanno per lasciare il posto alle zanzare.     continua "Cuba. Playa Esmeralda"

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