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Marocco. La leggendaria ospitalità berbera


Inserito il: 01/11/2007 da Alighiero Adiansi
Email: adiali@tiscalinet.it
Sito web: http://www.viaggiatorionline.com/profile.asp?id=Alighiero+Adiansi
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Dall’Italia sono arrivate a Casablanca con me due sorprese: tutti i bagagli e tutta la nebbia. Il Marocco, estremo Occidente dell’Islam, è un paese arabo e anche la nebbia se la prende comoda, ben sei ore a liberare il cielo per Marrakech, capitale del Sud, punto di partenza del viaggio. Al mattino fisso incredulo due Europcars fuori dal Gazelle. Dopo anni e anni a lottare per avere auto diverse dalle R4 d’epoca, dopo tonnellate di litigi, discussioni, forature, pompe della benzina cambiate, marmitte lattinate, stavolta mi impunto contro ogni logica: chiedo insistentemente una R4 ed esigo che sia una R4. La considero un'auto indispensabile. Darei le due compagne di viaggio bionde per due scassate, scricchiolanti, rappezzate R4. Invece, mi trovo davanti ad due auto nuove e luccicanti: una 205 e una Uno col paraurti così basso che pare spolverare l’asfalto.

Rassegnato al peggio, guido i compagni fuori dalla bolgia fino alla P31 diretta al Sud. Prima di andar giù, si sale per oltre 2000 metri del Tichka, e poi si va a spasso per l’Atlante Medio-Alto fino alla casa estiva di quel Glaoui, che a forza di leccar piedi ai francesi è riuscito a costruirsi casbe e castelli in ogni angolo del paese. Il palazzo più suggestivo si trova a Teluet, tra le valli verdi, il cielo sereno e l’aria limpida, almeno fino alla piazza dove un denso nuvolone nasconde il tavolo, qualche sedia, un migliaio di mosche, una griglia arrugginita, una brace puzzolente, 24 spiedini carbonizzati e otto turisti affumicati. Scorrazzando per i monti, che qui si chiamano gebel, e per i passi, che qui si chiamano tizi, arriviamo ad Ait BenHaddou per il tramonto, che qui si chiama coucher du soleil e arriva una bella oretta prima di noi. Quando giungiamo, la famosa casba del Lawrence è ormai un’ombra scura nella luce della luna. "Beh, ragazzi, tardi è tardi pero’ che spettacolo! Dormiamo qui e ci cucchiamo le lever du soleil. Troveremo una baracca dove buttare le membra stanche." Detto fatto. Ecco “La Baraka”, una vera “grazia di Dio”. Come tutti i fratelli del Marocco, i due simpatici proprietari si chiamano Mohammed e Abdullah. Lunga chiacchierata sotto le stelle, ottima tajine, il miglior concerto di tamtam del viaggio e letti troppo comodi. Al mattino il sole, alto sopra le torri diroccate, assiste beffardo al nostro risveglio, che qui si chiama anche lever de tourist rencoullionit.

Sfiorata Ouarzazate, comincia il tour otorinolaringoiatrico: gole del Dades e gole del Todhra. Attraversiamo Kelaa e la bianca Skoura da dove in una stagione più propizia si può partire per la Valle delle rose. Ci accontentiamo di marmellata e crema per la pelle: vasetti separati ma stesso profumo. A Boumalne, la strada s’insinua tra le arrossate fauci del Dades, molto meno arrossate dell’ultima visita. Non è l'effetto degli antibiotici, ma quello di edifici grigio-cemento di un numero spropositato di alberghetti, e quello di ridicoli finti cammelli accucciati nei punti più panoramici. Per fortuna l’ultimo edificio prima della salita è sempre quello e la succulenta omelette berbera nella pentola di terracotta foderata di peperoni testimonia che anche il cuoco è sempre quello.

Dopo pochi chilometri finisce l’asfalto, ma la strada continua in un paesaggio grandioso fino a Mserir da dove con un buon mezzo sotto il sedere si può tirare fino a Imilchil per assistere alla festa dei fidanzati a metà Settembre, oppure si può ridiscendere dalla pista quasi parallela al Dades fino all’impressionante canyon del Todhra dove noi arriviamo passando da Tinerhir. Gli alberghi incastrati sotto la roccia sono sempre due e “Les Roches” di Abdul è pieno come un uovo, ma Abdul sa come trattare gli amici, anche se arrivano tardi e la fetta di cielo visibile è così stretta che il sole è a coucher da un bel pezzo. I fotografi sbuffano, prima o poi lo beccheremo un tramonto.

Ormai è buio pesto, però che spettacolo ragazzi! Le stelle sembrano un fiume luccicante fin dove finiscono le pareti delle gole e inizia il chiarore della luna. Breve rincorsa, motori a tutta e tentiamo il guado verso il parcheggio: ci vuol mezz’ora coi piedi nudi nell’acqua gelida per impedire al fiume di riportare a Tinerhir l’auto. I raffreddori ce li siamo portati dall’Italia, quindi la situazione non può peggiorare. Tra starnuti, soffi, tossi, russate e “micio... micio...“ quasi non si sentono i tamtam africani di Abdul: un digestivo di due ore con assoli strazianti anche quando siamo sotto le coperte nel tendone imperiale. Ho la finestra sopra la testa e riuscirei a vedere il cielo se non fossi sommerso dai capelli di Daniela che mi dorme tete-a-tete ed è comunque meglio che tete-a-pied, specialmente se la testa è la mia. Quando finisce il concerto arriva un gruppo di motociclisti francesi che passa un quarto d’ora a controllare le moto per capire chi ha la marmitta bucata, e invece è Katia che russa. Lasciamo Tinerhir al mattino presto e mentre faccio scorta di mandarini al mercato di Jorf, gli altri si perdono nella piccola casba, tutta vicoletti, passaggi coperti e bambini sorridenti.

La spianata rovente tra qui ed Erfoud è un susseguirsi di piccoli coni vulcanici di fianco alla strada, una forma di acne del deserto provocata da un antico sistema di irrigazione sotterranea detto foggara. A Erfoud ci sono due cose importanti: la Kalia del ristorante Des Dunes, una tajine più ricca ed elaborata di quella classica, e Mohammed Ismaily del negozio Les Fossiles che mi aspetta sempre a braccia aperte. Prima di partire per il deserto andiamo a vedere la casa del Gesù di Zeffirelli a Maadid, la casa del re, nato qui vicino, a Rissani, la casa nuova di Mohammed: tre piani di lusso costruiti grazie al mercato di marmo nero con fossili incastonati messo in piedi con gli spagnoli. Per l’escursione alle incisioni rupestri di Taouz prendiamo accordi con l’autista di una jeep: l’appuntamento è per domattina alle otto a Merzouga. Le otto marocchine sono le nove e mezza italiane, sarà meglio tenerne conto la prossima volta! Taouz è solo a una quindicina di chilometri da Merzouga, ma non c’è un posto per dormire per cui ci sistemiamo al Fibule, uno dei tanti alloggi insabbiati nell'Erg Chebbi. E' del tutto simile agli altri, ma io preferivo lo Yasmina dove le dune arrivano sotto il piatto e bisogna dormire sul tetto per non insabbiarsi nel sonno. L’attrazione principale del deserto sarebbe il tramonto sulle dune se il sole non decidesse di tirarsi addosso un morbido piumone di nuvole prima di sprofondare dietro all’erg. Per consolare i fotografi i nostri ospiti organizzano una baldoria a suon di tam-tam, chitarre, canti e balli interrotta solo a notte inoltrata dalla immancabile “Bella ciao, bella ciao” di cui i berberi ci suggeriscono le parole esatte. Fuori fa un freddo cane, tira vento e non ci sono neppure le stelle, tanto vale procedere all’unico coucher: dopo una doccia calda ci sistemiamo nello stanzone da pranzo cullati dal vento e storditi dal profumo di menta, mela verde e scarpe da tennis.

Arriviamo a Taouz sudati e ammaccati a bordo della 4x4. L’Erg Chebbi, ondulato come il corpo di una top model sdraiata al sole, ricama i finestrini con le dune dorate stampate nel cielo limpido del mattino. In piedi in mezzo ad un lago prosciugato, un biliardo accecante di sale, cerchiamo di spiegare al perplesso auista dove siano le colline con le incisioni così ben descritte da Gaudio. Per fortuna sulla linea piatta dell’orizzonte si materializza un miraggio azzurro in sella ad una scassata bicicletta: è il custode del museo all’aria aperta. Non sarà un tuareg ma si merita una decina di foto. Riusciamo a malapena a stargli dietro con la jeep, giriamo attorno ad una collina di sassi finchè vediamo la bici abbandonata per terra e il grembiule turchese sventolare sul sentiero millenario tra i cumuli neri d’asfalto. Lo seguiamo, lo perdiamo, lo rivediamo più in alto, lo raggiungiamo e ci sediamo al suo fianco ansimanti. Da quassù si domina il bacino biancastro del lago. Non c’è vegetazione, nessuna costruzione, niente acqua, ma sotto le suole abbiamo molti animali, grandi, piccoli, conosciuti e sconosciuti, orme indecifrabili e qualche squadrato carro stilizzato. Saranno arrivati fino qui i mitici Garamanti? Avranno proseguito fino al mare sui loro carri volanti? Avranno trovato la nebbia e un incidente gli ha ridotto i carri in questo stato? Chi avrà lasciato tracce di sandali? Chi avrà inciso quel bestione con la testa abbassata, il ciuffo sulla coda e il manto maculato come un leopardo?     continua "Marocco. La leggendaria ospitalità berbera"

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