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Kawajia, kullu tamam?

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Racconto di una tappa a Shendi, Sudan, di Robo Gabr'Aoun - Inviato il 13 gennaio 2004 da Robo GabrAoun.

Kawajia, kullu tamam?

Il grande souk di Shendi, sulla sponda orientale del Nilo, si apre davanti a me come una immensa babilonia di colori e suoni, un caos indescrivibile di forme sublimate da un continuo, quasi ritmico movimento che pare non coinvolga soltanto le migliaia di persone, ma gli stessi banchetti, le tettoie, le decine di stuoie distese al suolo ad ospitare le verdure che la Madre Acqua dispensa in questo arido deserto.

Fermo il fuoristrada sulla via che costeggia il margine del mercato da sud, all’ombra effimera di un porticato di calce bianca, unico baluardo ad un sole che già in gennaio ruggisce e taglia le membra con artigli di fuoco. In undici anni ho camminato per i vicoli di infiniti mercati arabi, ma qui, in Sudan, è un altro mondo. Un mondo a colori sgargianti che lascia senza respiro se si ha l’accortezza di sedersi a guardare, facendosi avviluppare in questo caos che in fondo è perfetta armonia. Le tettoie di paglia si susseguono l’una accanto all’altra, unite da un intrico di corde, cordini, spaghi a sorreggere impalcature primitive, di pali ritorti. Stuoie di iuta coprono gli stretti camminamenti tra le bancarelle, ed il cielo ne risulta completamente oscurato. Il souk è un microcosmo di ombra nella piazza assolata, in cui anche i sassi della via sembrano trovare ristoro dalla calura.



Scendo dall’auto direttamente nella folla di bournous candidi. Sono in molti a guardarmi con aperta curiosità. Il turismo ancora inesistente, incontrare “l’uomo bianco” è un evento raro, e ancora più raro è incontrarlo nel cuore pulsante del villaggio. Le grandi arcate del porticato ospitano innumerevoli banchetti di mercanzie d’altri tempi: c’è l’angolo dell’orologiaio, del ciabattino, del tessitore...

Sento chiamare il mio nome e volgendomi incontro gli occhi maliardi del vecchio Ibhraim, sepolto dietro le sue stoffe. La sua vetusta macchina da cucire è alla base di una colonna dei portici. Ci salutiamo da amici, sfiorandoci con la mano destra le spalle, portandola poi direttamente al cuore in quel gesto meravigliosamente universale che accomuna tutti gli africani del nord. Due donne vestite di scialli variopinti, sedute ai loro minuscoli banchetti di venditrici di tè, mi sorridono, riconoscendo lo strambo straniero biondo, con i suoi buffi orecchini.

Chiacchieriamo un po’, Ibhraim ed io, mentre i bicchierini di chaij fumante arrivano senza bisogno di richiesta. Un incontro tra amici non può esistere senza tè. Un paio di animatissimi ristorantini si affacciano lì accanto, ed i grandi orci colmi di braci ardenti sfrigolano irraggiando nell'aria già soffocante nuove onde di calore ma anche quei profumi speziati che solo la cucina araba sa creare…



Tutti gli occhi sono rivolti a me, lo straniero. Passo tra gli avventori e quasi ad ogni tavolo mi ritrovo a stringere mani, ad intingere bocconi di pane in succulenti piatti di full, di riglha, di bamijah. E’ una sensazione incredibile, di familiarità, quel “sentirsi al posto giusto” che sempre mi riempie l’anima quando scendo in Africa.

Il richiamo continuo, cantilenato, dei venditori di banane sovrasta il frastuono dei pick-up e dei grossi e variopinti camion da trasporto che ingombrano la strada di terra battuta, facendosi largo tra centinaia di carri ricolmi di paglia, fieno, insalata, canna da zucchero. Decine di ragazzi attraversano la via trasportando sulla testa, in un equilibrio che sconvolge, lunghe tavole di legno zeppe di buon pane azzimo in forme tonde, così invitanti che ne mangeresti a bizzeffe. Fanno la spola dal forno al mercato, tutto il giorno e tutti i giorni.

Mi infilo sotto l’ombra del souk. Sono seguito da una coorte di ragazzini, piccoli venditori di borse di plastica, sacchi di iuta, semplici cestelli. Non sono assillanti, non sono nemmeno questuanti: lo fanno con me come con chiunque altro si aggiri nel labirinto di bancarelle. E' il loro “lavoro”. Mentre contratto i miei succulenti pomodori, un vecchio austero e regale mi passa accanto portando alla cintola la sua grande spada con la naturalezza con cui io potrei portare i miei occhiali o il mio zainetto.

Sono in molti, qui nel nord, a indossare la kaskara al fianco. Molte di queste lame hanno combattuto nell’883 per conquistare Khartoum alla guida del Mhadi. Lo guardo passare mentre come in un film che scorre a velocità siderale rivedo quei giorni di sangue, risento quell’urlo disumano eruttare da 150.000 gole di invasati che di corsa si lanciarono alla mattanza degli inglesi asserragliati in una città condannata. Incrociamo gli sguardi. Il mio è stupito, rapito da quelle orbite rugose, da quelle iridi nere come la notte. “Kullu tamam?” domanda. "Sì, certo, tutto bene, hamdellillah" rispondo.

Le braccia sono sempre più colme di sacchi e sacchetti. Mi sembra di essere un mulo caricodi pompelmi, arance, verdure, limoni per cui assoldo alcuni ragazzini e mi ritrovo a girovagare per il mercato con un seguito di piccoli portatori vocianti. Entriamo come in processione nell’area delle macellerie, sconvolgente, primitiva. L’odore acre dell’incenso profuma l’aria, antico e valido rimedio per scacciare le onnipresenti mosche, attirate dal ben di Dio di carni appese a centinaia di ganci sotto le tettoie di palma. continua "Kawajia, kullu tamam?" (Pubblicato il 13 gennaio 2004) - Letture Totali 144 volte - Torna indietro



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