O Brasil do Sul - Marau


Se attraversando il Sud del Brasile sentirete qualche anziano del posto parlarvi in dialetto veneto, non vi meraviglierete più dopo aver letto questo racconto di viaggio attraverso la Serra Gaúcha, di Bruno Giuliano

O Brasil do Sul - Marau Sito o fonte Web: web.tiscali.it/giuliantologia/ Nasco alla luce del mattino dal pancione del grosso Boeing e mi trovo per la prima volta a calpestare il suolo del Brasile. Spaesato come un neonato nel grande aeroporto internazionale Garulhos di São Paulo, attendo una mammina che si prenda cura di me e la trovo nascosta dietro un vistoso cartello con su scritto Amarau. È una giovane impiegata inviata dai miei futuri ospiti, bella ed esotica a misura delle fantasie di un maschietto italiano. Già mi sento un fortunato ragazzino quando (ahimé!) mi consegna il biglietto per volare al sud, alla loro sede centrale e aggiunge che non potrà accompagnarmi per motivi che il mio misero corso di portoghese non mi permette di comprendere.

Come consolazione, prima di sparire, la fatina mi procura un taxi che mi porterà dall’aeroporto attuale, all’aeroporto domestico di Congonhas. Domestico! si chiama proprio così un aeroporto per soli voli nazionali, ossia di casa. La distanza tra i due è notevole e il percorso attraversa la città che si sta risvegliando. Fiancheggiamo il fiume Tiete e con stupore vedo una draga che lo ripulisce da una schiuma bianca e ribollente che sembra ricoprirlo per intero. Il problema di questa città è che il paio di torrentelli, il Tiete non è molto di più, non bastano a diluire quanto sedici o più milioni di persone hanno accumulato negli ultimi centimetri di intestino con la cena della sera precedente.

Al nuovo aeroporto scopro che non comprendo un’acca di come parlano qui. Eppure leggo senza problemi i cartelli e persino il giornale locale. Considero quindi una fortuna il dovere attendere parecchio il mio volo per il Rio Grande do Sul e, consegnate le valigie al deposito bagagli, faccio un giretto per prendere le "misure" e non rischiare di rimanere a piedi quando annunceranno il mio volo. Ovunque trovo un bar mi fermo e cerco di chiacchierare con qualcuno. Con i clienti non ci provo nemmeno poiché, tutto il mondo è paese e anche qui sono tutti frettolosi e nervosetti, quindi attendo i momenti di calma e intervisto gli inservienti, ben disposti dai miei investimenti in seppur modeste mance.

Scopro così almeno tre modi diversi di pronunciare i nomi delle città che mi interessano. Non è cosa da poco poiché, ancora una volta il mondo si assomiglia, gli altoparlanti gracchiano frasi incomprensibili qui come nelle nostre stazioni. Intanto mi ricredo sulla bellezza delle ragazze locali. Soltanto quelle che hanno a che fare direttamente col pubblico si possono definire delle bonazze, le altre lasciano alquanto a desiderare.

Dopo un’attesa prolungatasi ben oltre l’orario ufficiale di partenza, finalmente mi imbarco. L’aereo non è il solito enorme Boeing, bensì un piccolo turbo elica della capacità massima di venti persone. Noi viaggiatori siamo soltanto in dodici e così mi è possibile sedere da solo immediatamente dietro la cabina di pilotaggio, insolitamente aperta e direttamente comunicante con la zona passeggeri. Il rumore dei motori è infernale. Vedo chiaramente i piloti parlottare tra loro pur non riuscendo a sentirli e neppure mi è chiaro come loro possano udirsi: abitudine forse.

Dopo esserci allontanati un poco dall’aeroporto si scatena un vero uragano tropicale, il secondo in giornata e questo spiega il nostro ritardato decollo. La hostess è in parti uguali indiana e giapponese con un pizzico d’Europa da parte di nonno materno. Il Brasile dispensa a iosa simili splendide combinazioni, pur tenendo conto di quanto ho affermato in precedenza riguardo alle bellezze locali. In attesa di rendersi utile a qualche passeggero la ragazza sta seduta proprio in fronte a me e la gonna le risale di un palmo sopra le ginocchia. Alterno lo sguardo tra lei e il fiumi d’acqua che si dividono in due sulle ali che ogni tanto vengono circondate da un bagliore rossastro. Sottoposti come siamo al campo elettrico dei fulmini, si rizzano i capelli anche ai pelati.

A parte me, i passeggeri occidentali strizzano senza pudore e la ragazza ha il suo da fare a tranquillizzarli, invece i viaggiatori locali continuano a farsi gli affari loro indifferenti. Ad un bel momento la ragazza, venticinque anni al più, non può più muoversi dal suo posto ed anche lei deve allacciarsi la cintura mentre molti cominciano a riempire i provvidenziali sacchetti in dotazione. I sussulti dell’aereo-giocattolo la sballottano nonostante la sua bravura di consumata equilibrista porta-vassoi-che-ride e le cinghie a volte le tirano la gonna talmente da scoprirle le mutandine bianche come la neve che s’incontra raramente in queste lande.

Eppure non ho più occhi per la ostessa; so che per venti giorni la mia vista sarà premiata da altrettanto stimolanti visioni, mentre simili fulmini che si abbattono a centimetri da me non li vedrò mai più. Sono rapito da simile sintesi di sesso e adrenalina. Al rumore iniziale dell’aeroplano adesso si somma quello della tempesta e la ragazza mi chiede con un cenno la mia lavagnetta da viaggio per scriverci su che non possiamo scendere a Passo Fundo, poiché la pista è ghiacciata. Caspita! D’accordo che è il 10 agosto, ovvero pieno inverno australe, ma ci troviamo proprio sotto al Tropico del Capricorno! continua "O Brasil do Sul - Marau" (Pubblicato il 08 maggio 2006)