Perché proprio la Thailandia?


Racconto di viaggio a Bangkok e nelle isole della Thailandia, di Stefano Rossi

Perché proprio la Thailandia? Sito o fonte Web: digilander.libero.it/mythai Perché proprio in Tailandia? E' la domanda che feci nel 1987, quando gli amici decisero per quella meta. Partimmo senza convinzione, pensando che sarebbe stata un'altra vacanza da raccontare agli amici ed invece fummo catapultati in un esperienza che ci lasciò qualcosa di diverso e minò molte delle nostre certezze. L'aeroporto di Bangkok era allora in costruzione. Una moltitudine di gente si accalcava verso la dogana in quel che sembrava un cantiere aperto, un caos totale. Usciti dall'aeroporto, nell'afa terribile che attanagliava il respiro e quasi non faceva ragionare, un tassista ci caricò le valigie e senza quasi accorgerseneci ritrovammo dentro al suo taxi. Scrutavamo dal finestrino per vedere qualunque cosa, un palazzo, un monumento... Niente era come ci immaginavamo. In quella Babele di strade, di gente e di traffico pensammo di aver sbagliato vacanza.

Era mattina presto, ma dopo una doccia eravamo già sulla Sukhumvit Road. Non era il primo viaggio che facevamo, ma eravamo abituati alla provincia e Bangkok appariva ancora più enorme di quello che era col suo brulicare di persone di tutte le età, i suoi marciapiedi pieni di persone che camminavano in modo scomposto, i chioschetti improvvisati che cucinavano le cose più strane, la gente che si sporgeva impaziente per cercare un tuc-tuc. Tutti sembravano avere un gran daffare. Solo quelli che aspettavano l'autobus con aria rassegnata sembravano tranquilli. Quanto a noi, eravamo gli unici occidentali, ma la gente non ci notava. Senza meta né scopo, tra tutte quelle persone che sembravano avere cose importanti da fare ci sentivamo un po' inutili. Fu così che ci venne l'idea: tovare Chian. Missione impossibile...



Chian era un Tailandese che parlava italiano e faceva da specie di guida turistica, diciamo free lance. L'aveva conosciuto un nostro amico un anno prima e avevamo il suo indirizzo, più per pigrizia che altro, ma che avevamo fortunatamente custodito nel portafoglio. I primi due tentativi andarono a vuoto. I guidatori di tuc-tuc non capivano cosa c'era scritto, ma fummo fortunati con un tassista. L'indirizzo era un po' generico perché ci lasciò in una zona decentrata di Chinatown, spiegandoci che più o meno era lì. Quando scendemmo dal taxi, fu come se avessimo fatto migliaia di chilometri. Non c'era molto traffico, le insegne avevano geroglifici diversi e poche persone passeggiano lungo la via. C'erano solo negozi e officine, ma guardando meglio erano garage di abitazioni adibite a qualunque commercio e artigianato. Le merci erano accalcate senza ordine e improbabili commesse si ciondolavano su vecchie sedie. Tutti avevano un garage e tutti vendevano o producevano qualcosa.

La cosa più curiosa erano le officine. C'era chi saldava con 40 gradi, le bombole di ossigeno ed acetilene (immagino) quasi sul marciapiede, chi verniciava cerchioni di camion e automobili, chi lavorava barre e trafilati, ma anche chi tagliava fogli enormi di lamiera con una roditrice accanto alla porta delle scale. Compressori d'aria facevano bella mostra sul marciapiede e trafilati in ferro erano appoggiati sui muri delle case.



Guarnizioni, cuscinetti, tutta roba usata erano stipati in ognidove dei piccoli garage, e se lo spazio non bastava appendevano al soffitto qualunque cosa tramite dei ganci. Naturalmente, c'era chi vendeva solo i ganci... Rimanemmo incantati. Ad ogni angolo c'era una sorpresa. Avevamo le competenze più svariate, e ognuno di noi si fermava davanti ad un officina che produceva qualcosa a lui familiare. Pensando di saperne più di loro, veniva naturale cercare di dare consigli sui metodi di lavoro, destando una certa curiosità. Intanto continuammo la ricerca di Chan. Non fù facile, però un vecchio che lo conosceva per nome ci accompagnò fin sotto casa sua, un palazzone alto con i condizionatori alle finestre. Suonammo il campanello e lui rispose in Tailandese. Non sapevamo cosa dire, cosa fare. La porta del palazzo era aperta così entrammo, ma questa è un'altra storia. A sera tardi, dopo mangiato, sballati dal fuso orario decidemmo di andarcene a letto, ma c'è sempre qualcuno che ha un'idea brillante.

"E i massaggi?" esclamò Beppe. Allora si favoleggiava assai su questo argomento. Informazioni di terza mano parlavano delle mille e una notte, qualcuno aveva giurato che un suo lontano parente era guarito da una sciatalgia cronica. L'adrenalina aveva iniziato a circolare e così con due taxi partimmo per non so dove. Il nostro tassista era un po' apatico, ma gli bastò sentire la parola "massage" per tornare a nuova vita. Iniziò a parlare ininterrottamente fino a convincerci che la sua sala massaggi era la migliore. C'e la ritrovammo davanti come per incanto. Il palazzone era scrostato e l'insegna dipinta a mano aveva delle lettere scolorite, ma tant'è che con un po' di buona volontà si poteva leggere Turkis Bath Massage. Il posto non era illuminato ed eravamo finiti chissà dove nella periferia di Bangkok, ma non ci preoccupammo troppo. L'unica obiezione la ebbi io. "Ma come, siamo in Tailandia e ci facciamo un bagno turco?" esclamai, ma non venni preso in considerazione. continua "Perché proprio la Thailandia?" (Pubblicato il 13 gennaio 2004)