Algeria. Trekking sul Tassili


Inserito il: 14/11/2007 da Annuska Grisendi
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Rivedo le elegantissime antilopi color ocra con una bianca banda sinuosa che ne disegna il petto, la gola e le corna, e poco oltre, sul soffitto di un basso riparo roccioso, che mi costringe a penetrarvi carponi, Ouaoua mi indica un dipinto quasi del tutto cancellato, la cui decifrazione pare quasi impossibile. L'osservo ansiosa di trovare una chiave di lettura e improvvisamente la scena mi si illumina: è la "barca egizia", che ho visto nella riproduzione fattane da H. Lothe, che scoprì nel 1956 la maggior parte delle pitture rupestri del Tassili. Mi sento felice come se avessi scoperto un tesoro e seguo con amore le linee tracciate sulla roccia, che riprendono vita e forma nella mia fantasia, come se le vedessi in tutto il loro antico splendore. A Timenzousine mi aspetta un'altra sorpresa: una lastra rocciosa orizzontale sulla quale è inciso un grosso elefante. Sono già passata di qui almeno una volta. Ricordo la vicina scena dei danzatori, e anche quella degli uomini col corpo dipinto, ma non ho mai visto questo grande animale, che fra l'altro è un unicum, sia perché è un graffto, sia perché l'immagine dell'elefante compare di rado nelle pitture del Tassili. Ci divertiamo a riempire con la sabbia il solco del graffito e alla fine l'immagine del pachiderma risalta più nitida sullo sfondo grigio della roccia. Sulla via del ritorno troviamo il covo di un uromastice: le tracce sono nitide e dentro la tana sentiamo muoversi l'animale, stuzzicato da Ouaoua con un bastoncello.

Quando siamo in vista del grande cipresso, scorgiamo i nostri zaini e Aziz, ma gli asini non ci sono. Comincio a preoccuparmi. Per tranquillizzarmi, Aziz mi dice che il ritardo è normale: i passaggi fra le rocce sono stretti e difficoltosi; gli animali a volte sono riottosi, bisogna scaricarli, portare a spalle il loro carico e ricaricarli. Lo so, ho già visto questa scena, ma non riesco ad impedirmi di essere inquieta, anche se la vicinanza del campo di Sonatrac è tutto sommato rassicurante. Per ingannare l'attesa ci muoviamo con tutto il gruppo verso il luogo scelto per il campo, lasciando Ouaoua sotto il cipresso, per segnalare agli asinieri il nostro spostamento. Mentre ci avviciniamo al campo tendato, Osman e un altro twareg, appollaiati su una roccia a mezza altezza, ci segnalano la comparsa degli asini. Un raglio in lontananza me ne porta la conferma. Mi rassereno e gusto con soddisfazione l'acqua che un nomade gentilmente ci porta dal campo. Mi torna la voglia di scherzare con Aziz, il cui largo sorriso e i cui occhi luminosi promettono disponibilità totale a collaborare per superare senza ansie tutte le possibili difficoltà. Dopo poco compare Ouaoua. Ci segnala che gli asinieri non hanno colto in tempo il suo messaggio e hanno scaricato gli animali sotto il grande cipresso. Dispiace rinunciare al campo sotto le rocce, ma poco male: vicino al cipresso dei muretti a secco delimitano degli spazi circolari, entro cui ci si puo' agevolmente riparare dal vento, sempre presente sull'altopiano. Inoltre, cenare li dentro, davanti al fuoco acceso, crea un'atmosfera intima, calda, in cui i rapporti umani sono facilitati. Proprio qui pochi mesi fa ho visto trasfigurarsi il volto di Moni al ricordo di quel suo amore giovanile.

A cena quasi finita arrivano gli uomini del campo. Conosco la disponibilità dei twareg all'allegria, all'ironia, al gioco. Basta un piccolo incitamento e Osman afferra una tanica vuota e si mette a cantare. Canta inventando, lo si capisce anche senza afferrare il senso delle parole, e a tratti incrina la voce e la spegne in un gemito. "Fatigué" dice inclinando un poco la testa di lato per dare l'impressione visiva della stanchezza, ma subito ricomincia fra l'ilarità generale con un'altra strofa. Poi si mette a giocare con un pendolo improvvisato, facendo fantasiose predizioni sulle future tappe del nostro viaggio. Intanto è arrivato Moni con il the, cui non riesco a rinunciare anche a rischio dell'insonnia. Quando tutti vanno a dormire, rimango con Aziz. Mi informa che gli asini, troppo carichi, hanno portato solo quattro taniche piene di acqua, ora ridotte a due. Contemporaneamente, Ouaoua mi comunica una variazione al programma. L'indomani faremo il campo a Ouan Touami e non a Sefar, dove sarebbe stato possibile fare rifornimento di acqua. Chiamo Moni e, con Aziz che mi fa da interprete, chiedo che domattina si riempiano a Tamrit quattro taniche, in modo da averne sei per i prossimi due giorni, in cui non sarà possibile rifornirsi. Moni fa resistenza, ma alla fine acconsente. So già che non lo farà, del resto non è possibile sovraccaricare gli asini, ma ho insistito affinchè capisca che ho intenzione di tenere la situazione strettamente sotto controllo. Aziz ha già calcolato che i consumi giornalieri sono di circa 30 litri. Riducendo al minimo la razione dedicata all'igiene personale, ce la possiamo quindi fare anche con quattro taniche. Da Sefar non potremo partire senza otto taniche piene perché di lì ci aspettano qiattro giorni senza possibilità di rifornimento, ma a quel punto però il problema del sovraccarico non ci sarà più, un po' per il consumo delle derrate alimentari, e molto grazie al percorso, che sarà in piano.

Al mattino ci mettiamo in cammino di buon ora per Tan Zoumaitac. Il paesaggio pietrificato del Tassili si presenta con una varietà inesauribile di forme e non finisce mai di stupire. A Tan Zoumaitac le rocce assumono l'andamento di fasci di colonnine interrotte da marcapiani. Le stesse colonnine, più basse e tozze, sorreggono talvolta grandi rocce orizzontali piatte. L'insieme assomiglia ad un branco di enormi corpi di animali sostenuti da corte gambette. Ouaoua me ne indica una e dice: "Tejare". Sarà il nome dell'animale a cui la roccia somiglia, o un termine per indicare quel tipo di fenomeno? Mah...

A Tan Zoumaitac incontriamo anche le prime "teste rotonde", figure umane in ocra violacea dalla grossa testa tonda, prive di qualunque tratto fisionomico. Anche le membra sembrano un po' rigonfie, tanto che qualcuno ha avanzato l'ipotesi che si tratti di extraterrestri. Comunque, accanto ad esse compare un'immagine emisferica sostenuta da peduncoli che può far pensare ad un'astronave. Sono le pitture più antiche, risalenti all'alto neolitico, quando il Sahara godeva di un clima saheliano, aveva l'aspetto di una savana ed ospitava elefanti, giraffe, rinoceronti e leoni, come testimoniano le incisioni e i dipinti rupestri disseminati per tutto il deserto. In una grotta a destra c'è l'immagine di una piccola, graziosa gazzella. Il colore, violaceo, dice che anche questo dipinto è assai antico.

Addentrandoci fra le rocce, raggiungiamo il "grande canyon", una voragine scavata dall'acqua che una volta scorreva abbondante sul Tassili. Mi allontano dal gruppo per raggiungere un punto d'osservazione più elevato e di lì scorgo sul fondo del canyon una piccola guelta, mai vista prima. Ouaoua, che mi ha raggiunto, mi dice che in quel punto sfociava l'oued Sibrì. Qui si gettava anche l'oued Tamrit, oggi conosciuto come "la valle dei cipressi" perché ospita bellissimi esemplari di cupressus dupretiana, vecchi 4000 anni, ma purtroppo votati all'estinzione giacchè i tentativi di farli ricrescere in loco non hanno dato risultati. La percorriamo ritornando verso Tamrit, colpiti dalle grandi chiome e dalle forme inusitate dei cipressi, alcuni fortemente piegati verso terra dal vento, altri col tronco tutto contorto e sinuoso, altri ancora cresciuti con più tronchi come grandi cespugli. Ouaoua si arrampica su un tronco ormai morto e si appollaia lassù. Coi suoi occhietti sorridenti mi suggerisce di raggiungerlo, perché vuole farsi fotografare con me. Prima di uscire dalla valle vediamo altri dipinti: una mucca che allatta, un bel busto di guerriero con la testa rotonda e due asticelle che ne spuntano a mo' di antenne, e le mani in tutto simili a quelle che si ritrovano in numerosi dipinti rupestri coevi in Europa.

Una pausa per il pranzo e ripartiamo. Attraversiamo Ouan Guffa, con i suoi spiazzi contornati da rocce a forma di teste di uccello col lungo becco, e ci troviamo di fronte Innaleouan, una selva di alti pinnacoli fortemente corrugati e tutti di forma diversa. I miei compagni sono senza parole di fronte all'aspetto maestoso e metamorfico del paesaggio e lo attraversano fermandosi continuamente per guardarsi intorno e indietro, perché ad ogni passo il cambiamento di prospettiva produce mutazioni nello scenario. Si chiamano l'un l'altro per indicarsi nuovi particolari appena scoperti, mentre Eugenio riempie di schizzi fogli su fogli, con l'aria di chi è ansioso di non lasciarsi sfuggire nulla. Camminiamo lentamente col naso per aria in stretti corridoi sabbiosi, finché sbuchiamo nel vasto spiazzo di In Itinen, una grande arena limitata da torri di roccia meno alte delle precedenti. Qui si trova la raffigurazione del carro dei Garamanti, una popolazione con cui si scontrarono anche i Romani, e che aveva la sua capitale a "Garama", in prossimità dell'attuale Djerma in Libia. E' un carro a quattro ruote, trainato da una pariglia di cavalli al galoppo, con sopra un auriga che tiene saldamente in pugno le redini. Il dipinto risale al primo millennio aC, ma la parete che lo ospita presenta altre immagini certamente anteriori: un bue pezzato con le corna lunate e altri bovini dell'epoca "bovidiana", figure umane in piedi e sedute della stessa epoca e, in alto a destra, una bella figura femminile seduta, con la testa rotonda e il bel proflo appena accennato.

Non molto oltre, nella zona chiamata Tetrastnelies, è dipinta una figura bianca dall'aspetto mostruoso, sovrapposta ad una grande antilope, pure bianca, e a sinistra una teoria di figure umane bi-triangolari con la testa a bastoncino di epoca posteriore. Nella parete di fronte c'è una scena complessa con una carovana e forse la cattura di un cammello; nell'angolo in basso a destra mi pare di vedere, dietro ad una fila di cammelli più piccoli, un uomo che guida un carro trainato da un cavallo: siamo dunque vicini all'epoca cristiana, quando il cammello (in realtà il dromedario) é stato importato in Africa, ma non ha ancora completamente soppiantato il cavallo. La sera mettiamo il campo a Ouan Touami, sotto una parete di roccia aggettante, dove al mattino scoprirò alcune immagini sbiadite dell'epoca "camellina". La tappa è stata lunga e dopo cena si rende necessaria una revisione del programma dei giorni successivi. Dopo una lunga discussione con Ouaoua, con l'intermediazione di Aziz e di Mohammed, ci accordiamo per un programma che suddivida equamente le tappe, senza farci rinunciare a nessuno dei siti più importanti. Tutti vanno a dormire; rimaniamo solo io e Aziz a sistemare la cucina e a fare i preparativi per il giorno dopo. Chissà perché, la consultazione ci ha messo di buon umore e, mentre lavoriamo, ci divertiamo a giocare con gli strani nomi dei luoghi che ospiteranno i prossimi campi.

Ouan Touami presenta rocce massicce con la superficie rugosa e scagliosa come un guscio di tartaruga. Alla loro base, dove il vento ha eroso in profondità la pietra arenarica, ci sono dei ripari fortemente aggettanti, ricchissimi di dipinti: in una parete è raffigurata una lotta fra guerrieri e sul lato destro tre bellissimi bovini parzialmente sovrapposti, guardati da un pastore, che a me pare di epoca posteriore per la differente colorazione; in quella di fronte c'è una caccia al muflone e nella zona inferiore un'altra battaglia. In altre pareti si vedono un labirinto, bei bovini di colore scuro, un bue con in groppa una scimmia (?), poi ancora mani in una scena complessa, quasi illeggibile, e una scena di monta fra due bovini. Ci allontaniamo percorrendo una serie di spiazzi rocciosi contornati da rocce tozze e rugose, variamente modellate in un gioco continuo di forme bizzarre, e sbuchiamo in un vasto pianoro sassoso. Di fronte a noi, si staglia la selva di torri di Tin Tazarift. Via via che ci addentriamo gli spazi si restringono in una serie di corridoi stretti fra rocce strane, che paiono graffiate dalle unghiate di qualche enorme animale preistorico.

Subito dopo un altro pianoro sabbioso e di nuovo una cortina di torri, dietro cui si apre un secondo pianoro sassoso su due livelli, a sua volta delimitato da torri più massicce: siamo a Tin Aboteka. Ci immettiamo nel letto dell'oued omonimo, popolato da magri cespugli, alla ricerca dei ripari con le pitture. Qui le rocce sono molto incavate e lisciate alla base e sotto gli aggetti scopriamo l'immagine di un grande muflone bianco, a cui è sovrapposta quella di un cane in ocra rossiccia, con una lunga coda arricciolata, poi guerrieri con scudo e una grande immagine bianca e tozza con una testa che la fa assomiglire ad un fungo.

Tin Aboteka è il punto più a est del nostro itinerario; ora puntiamo verso sud-ovest e ripercorriamo Tin Tazarift osservandone le pitture, alcune delle quali sono fra le più belle e interessanti di tutto il Tassili. Abbondano scene del periodo "bovidiano", che raffigurano mandrie accompagnate da uomini. In una c'è una figura umana esile ed elegante, dal profilo negroide, con in testa quella che sembra una cuffietta bianca e ai fianchi un perizoma, pure bianco. In un'altra, si vede un animale (un cane?) che si rotola sulla schiena. In un'altra ancora compaiono scimmie e uccelli, raramente presenti nelle pitture del Tassili, ma ci sono anche numerose teste rotonde, belle e a abbastanza ben conservate. Un riparo in particolare presenta due personaggi armati di arco e muniti di due piccole antenne alla sommità del capo e fra loro c'è una terza figura, orizzontale, che sembra nuotare. Tutte le figure sono disegnate con tratto sicuro e sono in movimento.

Questi lontani antenati avevano la stoffa dei grandi artisti. Alla base di un riparo Ouaoua indica una grossa pietra scavata, con dentro alcuni ciottoli perfettamente rotondi e levigati, un mortaio in cui gli artisti preistorici trituravano le pietre color ocra ottenendone una polvere che poi legavano al chiaro d'uovo di struzzo o alla caseina per ottenere la tempera con cui realizzavano le pitture. Anche in altre zone del Sahara è facile vedere di questi mortai, che spesso hanno la forma di coppelle scavate nella roccia alla base dei dipinti.

Procedendo in direzione di Sefar, attraversiamo l'oued Tin Teferiest, dove in un altro riparo scopro un' immagine semicancellata, che ricorda molto la "barca egizia" di Tamrit, e arriviamo per l'ora di pranzo, dove riposiamo dalla lunga e intensa tappa mattutina. Divisa in due dall'oued, Sefar assomiglia ad una grande città abbandonata: a est c'è Sefar Mellet, la città bianca, a ovest Sefar Settafet, la città nera, denominazioni che alludono alla differente colorazione delle rocce e alla presenza, nella parte bianca, della sabbia. Addentrandosi, ci si sente veramente dentro una città deserta e silenziosa. Lunghi corridoi si incrociano a formare trivi e quadrivi. Le masse rocciose paiono vecchi edifici abbandonati , e ci si puo insinuare fra gli spazi che li separano come entro atrii e cortili deserti. C'è anche uno spiazzo assolato, con una piccola duna, che pare una piazza, e c'è una roccia che si apre ad arco.     continua "Algeria. Trekking sul Tassili"

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