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India. Ricordo di un viaggio in India


Inserito il: 14/11/2007 da Max Italbiker
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Premetto che amo il mondo e, nei limiti del possibile, amo pure girarlo. Ho investito i miei pochi risparmi per conoscere gli usi, le abitudini, le culture. L'India rappresentava per me, da sempre affascinato dall'oriente, il viaggio per eccellenza. Ho ancora tra le mani il biglietto aereo, l'unico conservato tra i tanti utilizzati. Se lo riguardo, se lo tocco, risento le emozioni, le voci, gli odori di quella terra. Avevo una sorta di timore, la paura di non reggere all'urto psicologico che quella regione poteva darmi. Lasciavo Milano il 29 ottobre 1991, in una mattina di pioggia torrenziale. Portavo con me un bagaglio fatto da 30 giorni di ferie strappate all'azienda, uno zaino tattico, 2 amici (Patrizia e Stefano), pochi dollari e un biglietto aereo. Nulla di prenotato.

BOMBAY. Arrivammo a Bombay che erano circa le tre del mattino. La prima esigenza era cercare un posto per dormire un po'. Fuori dall'albergo un pullmino, tra i più belli che ho visto, era l'unico mezzo in grado di portarti alla città. Recava un'insegna rossa, elegante, Hotel Royal. La periferia di Bombay è interminabile, fatta di poche cose e di molte persone, buttate sui bordi delle strade come sacchi dalla notte che porta con sé il sonno. Uomini, donne, bambini, avvolti in stracci multicolori tra le braccia di una notte stellata. L'albergo era un nido di scarafaggi e sporcizia in ogni dove eppure un indianino vestito da maraja stava sulla porta, la apriva e chiudeva. Non me ne fregava nulla dell'albergo, del fatto che passammo la notte tirandoci sti animaletti marroni da un letto all'altro. Ero in India.

Bombay è una città a suo modo affascinante e snervante, una città che sembra non dormire mai. Ha un aspetto precario, instabile. La mia concezione di città europea mi portò a pensare che solo una ruspa gigantesca poteva dare un nuovo aspetto a quell'insieme di mattoni, legno e plastica che componevano i quartieri. Muoversi per Bombay è impossibile senza un taxi. Non sai mai dove sei, dove vai, dove vorresti andare. Ci facemmo quindi portare alla porta dell'India, che sorge davanti al Taj Mahal. Per natura sono un tipo sensibile e di fronte a quella semplice costruzione (un semplice arco) avvertivo i brividi della storia passarmi dentro. Avvertivo la colonizzazione e la distruzione di un popolo così ricco di storia, di cultura. Passammo la giornata in quello che si può considerare il centro di Bombay, entrando in botteghe dove bimbe che avevano al massimo 5 anni parlavano un Italiano perfetto, dove gli intoccabili, la casta più numerosa, dormivano sui marciapiedi, coperti dalle mosche.

Ho l'immagine di una ragazza davanti agli occhi: era sdraiata per terra e dormiva. Al suo fianco un bimbo di pochi mesi a cui lei, dormendo, teneva la mano. Pensai che se una Madonna fosse mai esistita, era così che doveva essere:bella e sconfitta. La sera ero ancora seduto dinnanzi alla porta dell'India, stremato più dalle emozioni che dal caldo e dalla fatica. Guardavo bambini correr dietro a topi di fogna grossi come gatti a pochi metri da me e non riuscivo neppure ad avere paura. Era bastato un giorno solo per essere inglobato in un ritmo così diverso dal mio abituale. Questa gente non aveva nulla e sorrideva. Sorrideva con gli occhi neri e profondi. Il benvenuto in questa terra me lo diede verso l'una di notte un uomo di un'età impossibile da definire che portava a tracolla una cassetta contenente della semplice acqua. Si fermò a parlarci, ci chiese da dove venivamo e ci salutò dicendoci: "Questa è l'India e questa è la mia vita. Domani sarà un giorno uguale all'oggi per me e durerà sino alla fine dei miei giorni. E' una figura che porto nel cuore e spesso, in momenti tra i più impensati, il ricordo di lui mi attraversa la mente come una luce e mi ritrovo a chiedermi cosa ne sarà stato di lui. Buonanotte Bombay.

Di nuovo Bombay. Questa mattina mi sono svegliato all'alba, assieme alla città, col rumore lontano dell'India che entrava dalle persiane socchiuse. Un caffè veloce e poi ad una delle stazioni ferroviarie. Fuori, una gigantesca buca dalla quale uscivano donne indiane che reggevano sulla testa enormi cesti contenenti pietra e terra. Ho chiesto cosa stessero facendo e la risposta, alquanto stupita, mi mise a conoscenza che erano i lavori per una metropolitana sotterranea. Le stazioni sono un formicaio, gente che va e viene con bagagli rudimentali fatti di tele, stracci, cartoni. Code in ogni dove. Chiedere informazioni è un rebus. Poi fogli da compilare, da rendere, da riconsegnare, tutto con una pazienza indiana. Dopo ore riesco a prenotare per Aurangabad. Abbiamo ancora tutta la giornata davanti.

Dopo una tappa all'isola di Elephanta, insisto perchè si vada in una Bombay più vera: il quartiere dei dhobi, il quartiere dei lavandai, indiani fuori casta che lavano i panni per i ricchi che vivono sulla collina. Il quartiere è un insieme di baracche con al centro una piscina. Vi si accede attraverso una lunga scalinata che entra direttamente in una pozza di acqua. Qui la gente si ammazza di fatica per le caste privilegiate. Qui si vive all'ombra del quartiere dei ricchi che è la in cima e ricorda il tuo stato sociale ogni volta che volgi gli occhi al cielo.Sono sconvolto ed anche spaventato. La povertà e l'immondizia sono ben al di là di ogni immaginazione. L'immondizia lungo le stradine strette talvolta mi copre i piedi. La disperazione beh... quella la leggo neglio occhi di ogni indiano che guardo e che mi sorride. La leggo nei bambini, che sono diventati per me il simbolo di questa terra. Sono il futuro senza futuro.

Sorrisi rassegnati e stanchi, ma sorrisi. Ad ogni domanda che rivolgo, quel sorriso profondo e vero accompagnato da quel ciondolar di testa che solo gli indiani sanno fare. Io, che non so fare a meno dell'igiene, che scarto i cibi che non mi piacciono, mi sento una merda. Mi vergogno per quel che ho sempre gettato via, per le giornate italiane passate pensando che non avevo a sufficenza. Questo mi hanno insegnato i dhobi; a valorizzare tutto ciò che ho. La sera voglio vedere il quartiere a luci rosse. Voglio farmi male perchè voglio sapere, conoscere. Il taxista che mi accompagna mi scoraggia dall'attraversarlo a piedi. "It is dangerous", mi dice. Meglio l'auto. Lo attraverso lentamente e mi sembra di essere in un bosco. Dall'esterno arriva un suono che sembra un cinguettio. Sono i baci di quella moltitudine di infelici prostitute. Sono bambine. Il taxista male interpreta le mie intenzioni e, vantandosene, mi spiega che con 25 rupie (1500 lire) posso averne una. Sento un morso allo stomaco e vorrei urlare ma guardo l'uomo e mi rendo conto che anche la prostituzione minorile è nel DNA di questa gente. Io non posso farli cambiare. Esce da ogni mia logica, è disgustoso ma io sono qui per vedere e non per giudicare. Ripenso al quartiere dei dhobi e mi domando se davvero è peggio essere prostitute o schiave.

Non ho mai saputo rispondere a questa domanda. Il moralismo mi porta a pensare che è meglio essere schiavi ma io, al loro posto, cosa farei? La musica indiana è in ogni dove e mi riporta all'albergo, al mio nido di innocui scarafaggi. Mi sembra quasi bello con la sua moquette una volta rossa, con le incrostazioni nel bagno e con gli animaletti marroni in ogni dove. Pazzesco, sono riuscito a convivere anche con loro. Domani il treno ci allontanerà da Bombay. Immagino che le campagne, gli animali e gli orti avranno un suono meno duro. E' un arrivederci a Bombay, non un addio. Entro un mese sarò di ritorno con gli occhi pieni di una fetta di India da raccontare, da dividere ma soprattutto da utilizzare come insegnamento di vita.

AURANGABAD, POONA E AJANTA. L'India è anche la terra dei paradossi. Siamo di nuovo alla Victoria Station e vaghiamo disperati tra vecchi vagoni ferroviari. C'è stato detto che se abbiamo prenotato dobbiamo cercare il vagone con i nostri nomi scritti sulla porta. Finalmente lo troviamo ma partirà solo dopo 2 ore. La distanza da coprire non è molta ma occorreranno circa 12 ore. Torniamo fuori dalla stazione per approvvigionarci di frutta da utilizzare come cena. Il paradosso è che Stefano e Patrizia si siedono in un rettangolo d'erba e vengono cacciati con un bastone. Solo pochi istanti prima una donna si era accosciata a poche decine di metri da loro, sulla strada, ed aveva urinato. In un paese dove ciò è normale, è invece vietato sedersi sull'erba. Mangio un mandarino ed ecco che mi si avvicina un ragazzetto, dieci anni circa, stessi occhi profondi. Porta le mani alla bocca nel gesto universale di chi ha fame e gli cedo tutto ciò che ho. Appena si allontana, mi lascio andare a due calde lacrime. Non posso farne a meno. Ho a casa un fratello della stessa età che coccolo e vizio. Non posso non pensare a lui.

Il treno è una specie di galera. I sedili sono in legno. E' superaffollato. Ogni finestra è chiusa da sbarre per evitare che la gente vi entri. In ogni vagone un controllore chiude a chiave la porta. Sono prigioniero del mezzo. Il treno corre lento tra case e stazioni. Si fa notte e le banchine si coprono di corpi sdraiati. Tra i corpi che dormono ogni tanto si scorge un morto, sdraiato assieme ai vivi, che sembra attenda il proprio treno che lo porterà al Gange. La famiglia lo carica sul treno di fronte al mio come fosse un bagaglio. Tutti lì, tutti assieme, vivi e morti sdraiati a terra alla ricerca di un po' di pace. Se un paradiso esiste, deve essere per la gente dell'India. La notte ingoia il treno.

Arriviamo ad Aurangabad che sono le quattro del mattino. Aurangabad non ha in sé nulla di particolare: solite case, solita gente. Mi sto ormai completamente adattando a questa strana terra. Il mercato della città è il solito mercato indiano, pieno di spezie e colori. Ajanta e Poona, invece, sono insieme miracolo e prodigio dell'opera umana. Un insieme di templi posti sul fianco di un monte e tutti scavati nella roccia. Li raggiungiamo il mattino utilizzando un autobus che sembra impossibile possa sopportare il viaggio. Le strade sono buche, buche e poi ancora buche. I templi sono bellissimi ma non riesco a godermeli appieno. Do di stomaco, ho la febbre. La sera prima, come mio solito, non sono stato attento a ciò che ho mangiato, lasciandomi ingannare da una strana crema di funghi indiani ai quali non ho saputo resistere. Volevo conoscerne il sapore. Torno in albergo con lo stomaco in mano, consolato dal mio amico Stefano che scherzando dice che avrò preso la malaria. Il solito Stefano. La sveglia per prender l'autobus per Poona è alle 5 del mattino. Da li, con un treno, intendiamo proseguire per Goa.     continua "India. Ricordo di un viaggio in India"

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