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Brasile. Viaggio nel tempo. Gli Arawatè


Inserito il: 13/11/2007 da Nicola Ferrulli
Email: titina@tin.it
Sito web: http://www.viaggiatorionline.com/profile.asp?id=Nicola+Ferrulli
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Premessa. Questo viaggio è stato realizzato unicamente grazie al fattivo interessamento del dr. Aldo Lo Curto medico volontario itinerante, come egli stesso si definisce. Senza le sue conoscenze presso la Funai (Fundaçao National dos Indios), maturate in 14 anni di disinteressato volontariato sanitario nei territori indios, il nostro viaggio sarebbe stato oltre che impossibile, inutile. E' l'occasione per ringraziare Aldo con tanta riconoscenza e, se ce lo consente, anche con un po' di affetto. Questa può anche essere l'occasione per invitare quanti volessero solidarizzare con la causa india a farsi avanti: le forme sono diverse a partire da un sostegno al FUNAI, organo che inspiegabilmente dipende dal Ministero della Giustizia, il cui scopo è quello di rendere gli Indios sempre più partecipi del processo che dovrebbe portare alla loro integrazione, lenta ma continua, nella società che li circonda. Se l'obbiettivo verrà raggiunto, avremo degli uomini che lavoreranno col computer ma che avranno, inevitabilmente, perso la loro specificità culturale. La strategia che persegue il minore dei mali. L'alternativa è infatti fare di questa gente una massa di sbandati, come già avvenuto nell'America del Nord o in Australia. A chi gioverebbe? A loro, certamente, no.

Arriviamo ad Altamira, stato del Parà nel Nord del Brasile, ad ovest di Bèlém, toccato dalle acque del fiume Xingù. Machadinho è il primo contatto che abbiamo e che abbia un riferimento con il centro di interesse del nostro viaggio. E' lui che ci metterà a disposizione, dietro compenso ovviamente, l'aereo che ci porterà in foresta. Ci sarà? Quanto ci chiederà? C'è, seppure con una gamba ingessata e ci chiede, dopo una trattativa condotta di malavoglia - sapevamo tutti che non c'erano alternative - 1.950 Reais pari a circa 1.750 US$. Si concorda, anzi è lui a decidere tutto, che saremo in sei più i bagagli, avendo necessità di un copilota che possa aiutarlo durante il volo per quella maledetta ingessatura. Si andrà con un bimotore all'andata, non essendoci problemi di atterraggio, ma ci preleverà in due viaggi successivi con un piccolo Piper al ritorno: sarà più facile il decollo dalla foresta.

Sarebbe interessante conoscere la vita di quest'uomo che possiede una fazenda di non sappiamo quante migliaia di ettari da cui far decollare ed atterrare i suoi quattro aerei ed una grande casa in città piena di cose brutte che possono comprare solo i ricchi. Ha uno sguardo furbo che guarda senza darsene a vedere e che, invece, quando ti parla, non ti molla un istante. Traffica con la Funai con i suoi aerei, che mette a disposizione in caso di urgenze nei villaggi indigeni, e alla Funai ha affitato una piccola parte delle sue terre per un esperimento di coltivazione di piante medicamentose che dovrebbe portare la fondazione ad essere autonoma quanto a necessità farmaceutiche.

Partiamo dunque il giorno dopo, giovedì 6 Agosto, con destinazione l'Ipixuna Arawatè. Il decollo dalla pista di terra battuta non presenta e pochi minuti dopo voliamo a 250 Km/h e circa 300 mt di altezza su "Mare Verde" della foresta Amazzonica, scalfito da corsi d'acqua e punteggiato, di tanto in tanto, da macchie gialle. Sono piante, spiega Aldo LoCurto, che la scienza medica occidentale sta sperimentando per possibili proprietà terapeutiche nella cura del cancro. Parlare della Foresta Amazzonica? Non serve. Si è detto tutto ma bisogna guardarla. La sua vastità è un suo valore assoluto che, da solo, definisce e condiziona la percezione. La fotografia è un mezzo assolutamente incapace di esprimerla. E' un essere indifeso, continuamente attaccato e, per nostra fortuna, enormemente grande. Ma le risorse umane, lo sappiamo, sono infinite, nel bene ma anche nel male.

Dopo circa un'ora di volo finalmente si intravede, in una piccola macchia rossa di terra, il villaggio dove vivono gli Arawetè. L'aereo lo sorvola, vira, perde quota, si dispone per l'atterraggio e, sfiorati gli ultimi alberi, con un piccolo rimbalzo tocca terra all'inizio della pista. Rulliamo fino in fondo, dove l'intera tribù ci attende festante. "Lasciate uscire prima me" si raccomanda Aldo Lo Curto. "Mi assaliranno per festeggiarmi, dopo uscite anche voi: forse vi lasceranno in pace."

Dopo qualche secondo noi tre non riusciamo a resistere agli sguardi curiosi che ci assalgono attraverso gli oblò, quindi usciamo anche noi. Sarà retorico definire "commovente" l'incontro, ma non saprei proprio definirlo diversamente. Ci coinvolgono gli sguardi indagatori degli uomini ma soprattutto quelli ridenti e festanti dei bambini. Tanti bambini. Ci abbracciano, ci stringono le mani, vogliono accompagnarci verso il centro del villaggio... Aldo Lo Curto viene invocato come se fosse la madonna pellegrina in quella loro lingua che spezza le sillabe: "O Al-do, o do-tto-r Al-do co-mo va-i?" E' una festa: per loro ma anche per noi che ci sentiamo accolti da amici che non vedevamo da qualche tempo. Tutti hanno il volto pitturato di rosso, alcuni anche i capelli. Gli uomini indossano pantaloncini e qualcuno anche un berrettino multicolorato. C'è chi si appoggia sornionamente ad un arco, mentre qualche altro, a tracolla, fa sfoggio di un fucile ad una canna. Le donne indossano gonnellini, che loro stesse tessono a trama fitta e colorano in rosso usando l'urucu.

Ci accompagnano al nostro "hotel", due stanze che la Funai usa per il personale paramedico e docente che lì vi abita tutto l'anno. Stanze povere, ma tutto sommato molto di più di quanto ci aspettassimo di trovare. I ragazzi più grandi pretendono di montare le nostre amache complete di zanzariere. Li lasciamo fare. Ci informano che quest'anno, e questa è una buona notizia, si sono viste poche zanzare. Preso possesso dello spazio messoci a disposizione, facciamo il primo giro del villaggio. Siamo trascinati, spinti dai bambini: forse quindici, forse venti. Ci toccano, chiedono le nostre mani per accompagnarsi a noi, ma non li sentiamo invadenti.

Siamo accompagnati da Aldo Lo Curto, che ci dà qualche consiglio "sull'uso" del villaggio e dei suoi abitanti. Cominciamo col chiedere di dipingerci il volto come loro. Le donne prendono un frutto spinoso dell'urucu, ormai secco, lo aprono e ne depositano nel palmo della mano i semi rossi che ne formano il contenuto. Buttano il guscio vuoto, spremono nella mano uno schizzo di latte delle loro mammelle e ne fanno, lavorando il tutto con un pollice, un impasto. Ci fanno quindi quattro segni sul volto: uno che attraversa la fronte da una tempia all'altra, uno sul setto nasale e due che attraversano le guance dall'attaccatura dell'orecchio fino al corrispondente angolo della bocca. Ci sentiamo battezzati.

Gli adulti sono discreti, ma ne percepiamo con forza il senso di ospitalità che li unisce a noi. Ci chiedono i nomi, ci danno i loro. Cognata, Tokinai, Cognicoti, Cognata-hi, Cognata-ro... sono i nomi di una intera famiglia formata da tre figli, di cui la prima è la maggiore, madre e padre. I genitori, al contrario di ciò che facciamo noi, con la nascita del primo figlio, assumono entrambi il suo nome con il suffisso -ro per il padre e -hi per la madre. Dopo due ore ci sentiamo già parte dell'aldeia (villaggio in portoghese).

Il personale femminile della Funai ha già preparato da mangiare. C'è pesce, riso e fagioli: si mangia tutti con appetito. Sonnellino pomeridiano, soprattutto per provare le amache, poi giro di approfondimento per l'aldeia. Tutti sono intenti in una attività: i pochi uomini che non sono usciti né a caccia né a pesca preparano archi e frecce, o accudiscono ai figli più piccoli portandoli a spasso per il villaggio. Qualcuno sfoggia il niuvaka, copricapo fatto con le piume multicolori del pappagallo arara. Le donne filano il cotone o tessono su telaietti verticali, usando per navetta le proprie dita, o colorano usando il solito urucu i tessuti, o tengono pulito lo spazio antistante la loro capanna. I bambini si rincorrono o ci seguono, mano nella mano. Cala il sole ed è il momento della cena con gli avanzi del pranzo. La maestra ci coccola con una insospettata e, per gli indios, segretissima caipirinha. All'aperto, alla luce della luna sfavillante e quasi piena, si chiacchiera, ma soprattutto si ascoltano le voci dei bambini che sono sempre con noi per corteggiarci, per toccarci, per aprire le zip delle tasche dei nostri pantaloni o dei nostri giacchettini. Sono tutti belli e sani. Sono un auspicio vivente di speranza di vita di un popolo Tupì, che attualmente conta 252 individui.     continua "Brasile. Viaggio nel tempo. Gli Arawatè"

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