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Malesia. Borneo: la terra sotto il vento


Inserito il: 09/11/2007 da Luca di Bella
Email: lokdb@tin.it
Sito web: http://www.viaggiatorionline.com/profile.asp?id=Luca+di+Bella
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Appeso alla parete come un geco, scruto l’oscurità in cerca di un appiglio. Due metri sotto di me, scorgo la tenue fiammella che danza sull’elmetto di Bian. Sepolto nel ventre del Gunung Mulu, fetido di guano e melma grigia, prima di precipitare verso l’abisso sento la voce della coscienza che mi punzecchia con sarcasmo: “ma come diavolo ti sei cacciato in questo pasticcio?!”.

E’ un’umida mattina di inizio agosto quando mettiamo finalmente piede a Kota Kinabalu (KK, come la chiamano da queste parti), capitale del Sabah. Finalmente in Borneo! “Le avventure asiatiche di Luca e Viviana”, è il titolo del fumettone che mi scorre nella mente mentre mi accingo per la prima volta a respirare l’afosa umidità del sud-est asiatico. Fuori dell’aeroporto noleggiamo un taxi per raggiungere la nostra prima meta: l’Ang’s Hotel, definito dalla guida Lonely Planet “un’ottima scelta”. Durante il tragitto, cerco di scambiare quattro chiacchiere con il tassista, che una folta letteratura vuole sempre grande conoscitore dei segreti locali: l’uomo mi guarda bovino dallo specchietto. Indovino che l’inglese non è il suo forte e mi rassegno a osservare silenziosamente la città che va disponendosi ai nostri lati.

KK è di uno squallore unico… Sapevo che la città era stata rasa al suolo per ben due volte nel corso della seconda guerra mondiale, e interamente ricostruita, ma non mi aspettavo tanto sfacelo. E’ sorprendente è l’alternarsi di edifici fatiscenti e sporchi a palazzi che ostentano ricchezza (marmi rosa e vetri a specchio). Tante banche. La bidonville su palafitte ci lascia a bocca aperte: le case sono cucce di legno e lamiera, unite da un intrico di pontili di legno, in mezzo ai quali si distinguono vestiti appesi e altre amenità. Curiosamente, a pochi metri di distanza sorge un lussuoso resort, con prati all’inglese e immacolati campi da golf. Il nostro hotel risulta perfettamente integrato al contesto, fa abbastanza schifo insomma, ma costa poco e se la guida dice che è ok... Molliamo i bagagli e ci avventuriamo verso il molo in cerca di informazioni per raggiungere le vicine isole. Per la strada, tutti ci osservano. Nemmeno fossimo vestiti da astronauti, ma è tutto relativo: di turisti occidentali non si vedeva nemmeno l’ombra. A prima vista, le facce che ci osserrvano con malcelata curiosità non sono esattamente raccomandabili e, attingendo al mio folto bagaglio culturale, decido che sono proprio come i cattivi nei film di Bruce Lee. Ci facciamo coraggio ripassando mentalmente il capitolo che la guida dedica a Kota Kinabalu, nella sezione Pericoli: “Nonostante le apparenze, KK resta una città sicura”.

Al molo ci sono numerosi gabbiotti che pubblicizzano i collegamenti per le isole. I malesiani presenti fiutano da enormi distanze le nostre necessità e ci chiamano con ampi cenni. Uno in particolare, che io lo ribattezzo fulmineamente “il dentista” per via dei denti che si dribblano tra loro, si mostra particolarmente insistente. Lo ascolto con scarso interesse per non incoraggiarlo, dico che torneremo più tardi, ma non molla la presa. Aggiungo che non capisco. Lui sorride mostrando il suo pezzo forte, e riattacca con più lentezza. Riusciamo finalmente a divincolarci. Tutti ci guardano, ma nessuno appare ostile. Un bambino sorride alzando il pollice. Il naso ci guida verso un mercatino coperto, dai banchi colmi di frutti e verdure spesso sconosciuti a noi. Devo avere un grosso punto interrogativo al posto del cranio tanto ogni cosa mi incuriosisce, ma non mi azzardo a spiccicare una parola con i mercanti. Scandaglio le merci alla ricerca del mitico durian, il raro frutto tipico della Malesia, le cui caratteristiche principali sono: polpa cremosa e delicatissima e tanfo di fogna, tanto che è vietato portarne in albergo. Un celebre scrittore definì così l’esperienza con il durian: “E' come gustare un gelato al lampone in un gabinetto pubblico”. Prendo una grossa zucca bitorzoluta, dal nome di jack fruit, per durian. Per sollevarmi il morale, Viviana propone una passeggiata alla collina panoramica che domina KK, chiamata Sight Hill. Bene, ci incamminiamo curiosi lungo una strada che si insinua tra alberi alti decine di metri, dai quali friniscono all’unisono milioni (centinaia di milioni) di cicale. Il chiasso è a tratti assordante. La vista su KK e isole è molto bella e ci apprestiamo a godere del primo tramonto tropicale della nostra vita se non che intercetto una nube d’acqua in lontananza. Sarà meglio tornare, dico, ma non faccio in tempo a chiudere la bocca che l'acquazzone ci sommerge. L'atmosfera è surreale: il sole continua a splendere sulle isole del parco, mentre la collina è avvolta da una nube d’acqua. Non possiamo fare a meno di ammirare rapiti il gioco della natura, con il sole che riverbera sugli alberi una patina d’oro, mentre pioggia densa e fitta continua ad avvolgerci. Dal diluvio emerge una signora con due grandi buste della spesa. Sale senza fretta, ci sorride e prosegue canticchiando.

Il secondo giorno guardiamo sconsolati le nostre creme solari a protezione 700: piove ancora. Caldo umido, ma non soffocante: girare in strada è persino piacevole. Il giro alle isole è ancora rimandato. Per ripicca contro il destino, decidiamo di cibarci di frutta come scimmie. Al mercatino riempio la busta di mini-banane, frutti a stella e curiose palline gialle grandi come piccole prugne. Le banane sono dolcissime, ma i frutti a stella sono deludenti: sanno di buccia di piselli! Quanto alle piccole prugne sono, …ehm, divertenti. Si toglie una buccia sottile tipo melograno, per rivelare una polpa trasparente e gommosa, come quella delle palline che rimbalzano. Faccio subito la prova: non rimbalzano. Nel pomeriggio facciamo finalmente rotta sull’isola più grande, Gaya. Non che ci sia molto da fare, a parte un assaggio di trekking nella giungla. Scopro che si suda in maniera allucinante.

Finalmente ci destiamo col sole e si salpa subito per Sapi Island, l’isola più bella per fare snorkeling! Sempre col timore di essere fregati e abbandonati da qualche parte senza che Bruce Lee ci salvi, ci imbarchiamo su una lancia che in pochi minuti ci scarica a Sapi. L’isola è bellissima, con spiagge bianche e sfondo di vegetazione che a tratti sconfina in acqua. Purtroppo, l’acqua non è pulitissima, a causa della vicinanza con KK e della sua sporcizia che arriva con la corrente, ma basta allontanarsi di qualche metro dalla riva per gustare la vita marina che pullula sui bassi fondali: pesci colorati di ogni tipo e stelle marine azzurre. L’acqua è a temperatura ambiente, ci si potrebbe stare le ore. Decisi a provare anche qualche altra spiaggia, ci incamminiamo su per la collina, accompagnati da una simpatica coppia di toscani conosciuti in loco. Superiamo un tratto di foresta e scendiamo su una spiaggetta più appartata e bella. Quando arriviamo, i toscani, che ci avevano preceduto, ci raccontano che, mentre facevano il bagno, un macaco era sceso furtivo, aveva trafugato un arancio dallo zaino della ragazza e si era messo a sbucciarlo su una roccia. Io e Vivi vediamo soltanto le bucce, ma il macaco non si fa più vivo. Siamo dispiaciuti e sollevati allo stesso tempo. Impavidi, eh? Alle 18 incontriamo il gruppo col quale avevamo deciso di aggregarci per la prima parte del viaggio.

Ed è con questo che al mattino seguente partiamo per Kiau, un villaggio Dusun alle pendici del monte Kinabalu, dove alloggeremo. Un’ora e mezza di minivan, e poi trasferimento su fuoristrada 4x4 per l’ultimo tratto di strada dissestata. Piove a dirotto, ma lo scenario è fantastico. La strada ci porta in cima a colline ricoperte di una fitta vegetazione. L’aria fresca, i monti e la nebbiolina fanno pensare a un paesaggio alpino, ma a intorno a noi ci sono palme e banani. L’alloggio offerto dai Dusun è modesto, ma lo scenario è indescrivibile: da una parte la massa scura del Kinabalu (4095m…e presto saremo in vetta!), grondante di piccole cascate per via della pioggia, dall’altra una verde distesa collinosa che si apre sul mar della Cina! Scattiamo dozzine di foto, ma già sappiamo che niente potrà rendere a dovere la magia del posto. Mangiamo seduti per terra e, dopo cena, i locali si uniscono a noi, invitandoci a bere la loro bevanda tradizionale, il vino di riso mischiato ad acqua con cui i locali sono soliti ubriacarsi ogni domenica. Nuovi Dusun, più o meno tutti sulla ventina, vengono a conoscerci uno per uno. Sono quasi tutti brilli per via del vino di riso, ma l’alcol li rende più socievoli e, a quanto sostengono, migliora il loro inglese (ah, basta così poco?!). Si formano piccoli gruppi: c’è chi balla e chi parla. La presenza di visitatori occidentali li rende felici, li fa sentire meno isolati. Li tempesto di domande sul loro stile di vita, ma non ricordo più quali. Colpa del vino di riso...

La mattina Andry, figlio di Soppingi, la guida Dusun che ci porterà in vetta al Kinabalu, ci mostra il villaggio. Non entriamo in nessuna casa. I Dusun si vergognano delle loro case, non le ritengono adeguate a ospiti occidentali, dice Jo. Alle 10.30 siamo finalmente in marcia per il quartier generale del Parco nazionale del monte Kinabalu. Il parco è meraviglioso: le strade che portano dall’Headquarter ai vari chalet sono bordate di palme di ogni tipo, ma anche di felci arboree, orchidee e tanti altri generi di piante tropicali. Siamo a 1588 metri di altezza, fa fresco e si sta bene. Pranziamo al ristorante del parco, dove spendo appena 2500 lire per un piatto unico di riso, manzo e verdure miste, e un bicchiere di coca cola. La scalata inizia il mattino seguente. Il nostro obiettivo è raggiungere il rifugio Laban Rata, a 3270, dal quale partiremo in nottata per raggiungere la vetta all’alba. Sono circa 6 chilometri, per un dislivello complessivo di 1500 metri, un percorso che solitamente si fa in 3 ore, 3 ore e mezza. Curiosamente, i primi 200 metri sono in discesa. Il sentiero è bellissimo, largo e con grandi scalini scolpiti nella roccia e nelle radici degli alberi. Incontriamo subito una cascata, poi ci addentriamo nella foresta, che pullula di uccelli e scoiattoli. Ogni chilometro c’è una sorta di bungalow dove riposare, un bagno e una fontana. Man mano che saliamo l’alta foresta lascia il posto a un bosco di rododendri nani. C’è il sole ed è tutto terribilmente bello, oltre che un bene: con la pioggia, sembra che i viandanti debbano fare i conti con le sanguisughe. A un punto di sosta, Viviana dà da mangiare delle briciole agli scoiattoli. Uno le mangia direttamente dalla mano: poi, finite le briciole, le addenta l’indice. A tratti, la foresta è talmente bella che sembra di essere in un set di Disneyland. Nella vegetazione scorgo le piante carnivore più famose del parco, le nepenti. Mentre ci avviciniamo al Laban Rata la vegetazione si fa più rada, e scende una nebbia sottile. Il paesaggio diventa surreale, una foresta di alberi contorti, grigi e senza foglie, avvolti dalla nebbia. Giungo al Laban Rata assieme a Eddie, lo svizzero, e Gustav lo svedese, in anticipo sul gruppo di circa 45’. Ci abbiamo messo appena 2h50’. Sono abituato a fare trekking sulle Dolomiti, ma questo percorso credo sia stato in assoluto uno dei più belli che abbia mai fatto. Al Laban Rata ci rilassiamo un po’, giocando a carte, e ordinandoci una bella minestra di noodles (gli spaghetti qui li chiamano così). Il panorama è splendido, e a tratti siamo immersi nelle nuvole.

La sveglia è fissata per le 2 di notte. E' buio pesto. Dopo un’insolita colazione, riprendiamo il sentiero per la vetta. Il cielo è un tripudio di stelle e stelle cadenti! Il percorso si snoda interamente su nuda roccia, nei punti più difficili attrezzato con corde cui aggrapparsi. È abbastanza faticoso, ma non sembra rischioso, non in buone condizioni atmosferiche almeno. Andry racconta che l’anno precedente uno scozzese è morto, scivolando sulla roccia resa viscida dalla pioggia. Avvicinando la vetta il freddo si fa sempre più pungente. Indosso un dolcevita, un pesantissimo maglione a collo alto in dotazione alla Marina, una giacca a vento, un berretto e una sciarpa, ma ho freddo lo stesso. Raggiungiamo Low’s Peak, la vetta del Kinabalu, a 4095m.

Aspettiamo qualche minuto, prima di vedere sorgere il sole sul mar della Cina. Un bello spettacolo, sicuramente…ma io ho freddo e non me lo godo granché. Tornati al quartier generale, ritiraro il certificato che attesta la nostra impresa, un bellissimo souvenir, con disegni di orchidee e lapenti, che ora troneggia sopra il mio letto. Tappa successiva, le terme di Poring (Poring Hot Springs), ove ci sono boschi di bambù grandi come alberi, palme cariche di frutti, orchidee e fiori ovunque oltre a vasche piene di acqua sulfurea bollente. Le vasche sono realizzate in pietra e poco scenografiche, ma il contorno è magnifico.     continua "Malesia. Borneo: la terra sotto il vento"

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