Hoggar


Inserito il: 10/07/2004 da Annuska  Grisendi
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Sono invitata a cena a casa di un cugino di Laid, il più giovane degli autisti, e quando lo incontro, mi vedo di fronte la stessa persona che ho conosciuto pochi giorni fa a Djanet, quando mi sono fermata a salutare Taieb, poco prima della partenza. “Questo deserto smisurato, nel quale ci si incontra sempre!”

Dormo su un terrazzo: c’è un’aria non fredda, non calda, che cessa del tutto verso le 23 e riprende verso le 6 del mattino, quando mi sveglio. E’ ancora buio, segno dello spostamento verso Ovest; ma pochi minuti in bagno e, quando ne esco, la luce mi sorprende. A Djanet mi sono abituata a vederla giungere lentamente: quando mi sveglio all’alba, posso ritirare la testa nel sacco a pelo e dormire ancora un poco, e quando mi risveglio c’è appena la luce mattutina e il sole non è ancora sorto. Qui ho l’impressione di essere passata d’improvviso dalle tenebre alla luce. Mi viene in mente che sono sotto il tropico del cancro.

Raggiungo gli altri, che hanno dormito al “Caravanserrail”, e partiamo per l’Hoggar, percorrendo l’oued Tamanrasset, che ben presto si restringe fra i monti. Sono salita sul pic-up con Bashir, che, conoscendo la mia passione per i nomi dei luoghi e la loro storia, subito mi addita una montagna che si erge isolata: è rotonda e massiccia alla base e termina con una tozza punta; ha le pareti striate verticalmente come un fascio di canne d’organo. I touareg la chiamano” Egheghem”, il pestello, e a poca distanza si profila la sagoma massiccia e piatta di un altro monte, che, naturalmente, è il “Tindè”, il mortaio, quello in cui le “targuie” pestano il grano e il miglio e su cui, in occasione di matrimoni e festività, stendono una pelle di capra, trasformandolo in un tamburo, al ritmo del quale improvvisano le loro canzoni, che cantano temi antichi: l’amore, la guerra, la solitudine, gli spazi infiniti, le leggende tramandate di generazione in generazione.

Bashir assomiglia a Omar Sharif: lo stesso viso dai lineamenti morbidi, lo stesso sguardo dolce sotto sopraccigli folti, lo stesso sorriso mite; quando si toglie il shesh, rivela capelli appena brizzolati, ma lisci e leggermente inanellati, più da arabo che da touareg. Parla in modo pacato e sottotono, ha movimenti lenti e controllati, tutto il suo modo di essere ispira calma e fiducia. Anche Ahmed, il capo degli autisti, si fida di lui e qualche volta non ha esitato, su suo consiglio, ad abbandonare la pista nota.

Superiamo in breve la guelta di Imaloùlaouen, formata da bacini sovrapposti stretti in una gola. Mi piace immaginarla coi bacini colmi d’acqua e con delle cascate di raccordo; ma questa è una memoria delle nostre Alpi e forse nemmeno armonizzerebbe con lo spirito del paesaggio sahariano.     continua "Hoggar"

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